«Nel Buddismo Zen c’è un detto: “Batti l’erba e spaventa il serpente.” Così come si batte l’erba
per far emergere il serpente che si nasconde dentro, esiste una tecnica per sorprendere l’avversario
e agitare la sua mente. L’inganno consiste nel fare qualcosa di inaspettato per l’avversario e
sorprenderlo. Anche questo è arte marziale.»
Yagyu Munenori, Heiho kadensho, a cura di W. S. Wilson, trad. it. di M. Amarillis Rossi, Luni, Milano 2004, p. 49
Quando ho letto questo passaggio mi è subito venuto in mente il concetto di seme anche così come si trova in alcuni kata di seitei iai. In particolare penso al numero sette, Sanpogiri. In una situazione complessa nella quale tre avversari cercano di aggredirti, sia pure a distanze significativamente diverse, tutta l’azione si basa essenzialmente su questo medesimo principio: “batti l’erba e spaventa il serpente”. Se infatti il primo avversario frontale, il più vicino, non fosse bloccato dalla minaccia efficace portata verso di lui, non ci sarebbe nessuna possibilità di bloccare il secondo e il terzo avversario in avvicinamento. E del resto, se l’azione di minaccia non fosse percepita come reale nei confronti del primo avversario, perché mai il secondo dovrebbe rischiare la vita entrando nello spazio di minaccia del praticante?
Questo principio si ritrova anche in altre forme, come nel sollevamento da terra in Ukenagashi, ad esempio. L’elemento ingannevole nella pratica dello iaidō consiste del successo nel controllarel’intenzione dell’avversario, spingendolo a fare spontaneamente ciò che è auspicato da chi pratica. E questa è naturalmente anche la parte difficile. Tale difficoltà si può a mio avviso collocare su due livelli diversi: uno di carattere didattico-cognitivo; l’altro di carattere spirituale.
Nel primo caso il problema principale per chi si appresta ad imparare una data forma è la mancata percezione di un avversario fisico.
Il principiante nello iaidō non è in grado di vedere il proprio avversario, perché concentrato sull’emulazione di un’azione esterna, valutata in termini di correttezza formale. “Come deve essere messa la spada?” è una tipica domanda che emerge nel momento in cui qualcuno tenta di imparare una forma. L’attenzione è tutta sulla spada, o sulla posizione del corpo, raramente sui piedi.
Questo naturalmente è perfettamente normale e anche necessario nel processo di apprendimento; spesso però si vede come la percezione realistica dell’avversario non viene abbastanza allenata sino all’arrivo a gradi intermedi o avanzati di pratica, determinando quindi esecuzioni sommarie o artificiali. La minaccia spesso fittizia che si esprime in Sanpogiri o l’eccessiva rapidità in cui ci si alza sulle ginocchia in Ukenagashi sono un sintomo di questo problema didattico-cognitivo. Poi però c’è il secondo problema, più sottile e anche difficile da correggere del primo: poniamo il caso che durante una camminata in campagna battiamo l’erba per spaventare il serpente, ma con nostra sorpresa il serpente ci sia veramente. Come reagiremmo a ciò che abbiamo efficacemente provocato? Dicevo che questo è un problema di carattere spirituale, perché la gestione di ciò che abbiamo saputo suscitare attraverso una corretta tecnica – ho battuto l’erba con un bastone, non con il mio piede – dipende principalmente dalla nostra attitudine nei confronti dello scontro. Il serpente è uscito, non mi ha colto di sorpresa mordendomi e ho raggiunto una distanza corretta per gestirlo, ma è sempre lì. Se io reagisco sorprendendomi della stessa riuscita della mia tecnica, questo rivela in me un profondo stato di insicurezza; e del resto se io mi bloccassi davanti a quel serpente per paura o addirittura mi mettessi ad inseguirlo per ucciderlo con aggressività, avrei completamente perso di vista il mio obiettivo: avanzare sulla mia strada verso la mia destinazione ultima.
A scanso di equivoci, questo ultimo punto riguarda da vicino la mia personale pratica. L’inganno, inteso come conduzione della naturale volontà dell’avversario in consonanza con la nostra, è essenziale in un qualsiasi scontro; ma la gestione delle conseguenze dell’inganno forse è ancora più profonda e necessaria, perché, nello iaidō come nella vita, spesso è più facile ingannare noi stessi di quanto lo sia ingannare l’avversario.