Yagyu Munenori, Heiho kadensho, a cura di W. S. Wilson, trad. it. di M. Amarillis Rossi, Luni, Milano 2004, p. 49

lo iaidō, anche da un punto di vista etimologico, ha a che vedere con il concetto di abitare uno spazio in relazione con altri. Nello studio della spada, almeno da un certo livello in poi, è necessario interiorizzare il concetto di ki-ken-tai-ichi ovvero di comprendere come l’efficacia di qualunque movimento dipenda dalla consapevole intersezione della mia propria sfera spazio-temporale con quella del mio avversario. Questa intersezione di spazio e tempo nel ritmo imposto dalla realtà del combattimento implica sempre un’interazione consapevole del sé in relazione all’altro da sé.
Ora, leggere queste parole del grande maestro Yagyu Munenori sull’applicazione relazionale dello studio della spada colpisce il lettore moderno proprio perché spesso ci si immagina che ciò che costituisce l’oggetto proprio della pratica marziale sia la neutralizzazione dell’avversario in combattimento e l’ottenimento della vittoria in battaglia. Naturalmente questa componente c’è, è evidente, ma il punto è che essa non esaurisce affatto il senso della pratica. In effetti ne costituisce soltanto l’involucro più esterno, ciò che si rivela palese ad un primo sguardo. Nessuno ha bisogno di essere iniziato ad una particolare scuola prima di poter capire che lo scopo principale di un taglio
eseguito con la spada è quello di ferire o uccidere un altro essere umano. Eppure fermarsi a tale osservazione rende impossibile la comprensione di ciò che si apre attraverso lo studio di quel medesimo movimento, apparentemente semplice nell’intenzione come nell’esecuzione.
La crescita nella marzialità, già in un’opera del XVII secolo come lo Heiho kadensho e dunque ben prima della nascita dello iaidō, che come tale è un fenomeno moderno, è legato a doppio filo con il tema della relazione: il dove e il quando, il momento opportuno e la decisione nel coglierlo costituiscono gli oggetti di ricerca fondamentali di questo particolare percorso spirituale.
Nel XXI secolo nessuna persona sana di mente penserebbe di scendere in battaglia armato di una spada giapponese e, al di là di pittoreschi episodi cinematografici, nessun killer sceglierebbe una spada per portare a termine il proprio lavoro. I soldati moderni non studiano iaidō come parte delloro addestramento. L’arte marziale consiste in altro.
Certo, il lavorio su di sé implicato dalla via della spada non può essere ipocritamente distinto da una pratica rigorosa e consapevole di ciò che viene trasmesso come corretto, ma ciò che si realizza realmente attraverso tale pratica rigorosa è cosa diversa. La comprensione intuitiva e profonda del concetto opportunità dell’azione coincide con il medesimo principio che regola la vita consociata
dell’essere umano e attribuisce la vittoria in uno scontro. Per questo motivo la pratica dello iaidō non può essere ridotta ad un vano esercizio solipsistico. Il saper stare insieme, il condividere lo spazio e il tempo del dojo come luogo e momento di pratica e allo stesso tempo portare all’esterno di quel particolare spazio ciò che si è appreso, è uno dei fondamentali obiettivi della pratica. Perché in effetti non avrebbe alcun senso parlare di “miglioramento dell’umano” se non in chiave relazionale: non si dà un umano in astratto, ma sempre e soltanto in relazione. Comprendere intuitivamente l’opportunità di una parola, di un gesto, persino di una presenza, è l’esito efficace del medesimo studio, lungo, lento e rigoroso, applicato all’esecuzione del movimento del corpo e della spada in relazione ad un avversario.

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