Ho scelto di commentare queste parole di Nakae Toju perché credo siano più di altre esposte al fraintendimento. Questo genere di aforisma potrebbe piacerci e tutto sommato anche conquistare rapidamente la nostra adesione: in fondo, se pratichiamo arti marziali e abbiamo una qualche formazione culturale potremmo ritenerci a posto con noi stessi, e anche complimentarci per i nostri meriti. Meglio di no, invece.
In realtà questa idea nasce dalla superficialità con cui il più delle volte ci approcciamo ai testi che leggiamo. Termini come “cultura” o “marzialità”, intorno ai quali ruota l’intera comprensione di queste parole, sono molto ambigui e per niente chiari; siamo portati a caricarli di significati positivi e a noi familiari, ma ci dimentichiamo volentieri che queste sono traduzioni condotte su una lingua che non conosciamo, all’interno di un quadro culturale almeno altrettanto sconosciuto.
L’antico autore sta rispondendo ad una domanda sul rapporto tra marzialità e cultura. E sin dall’inizio chiarisce che quello che comunemente (cioè nel Giappone del suo tempo) si intende con questi termini non corrisponde a ciò che egli intende esprimere con le medesime parole.
Questo approccio è di per sé destabilizzante. Attraverso il parallelo con yin e yang, l’autore lega i concetti in un tutt’uno organico, in cui “cultura” è il termine generico per indicare la “via dell’umanità”, ovvero un insieme di rispetto per i genitori, fratellanza, lealtà e fedeltà; mentre “marzialità” esprime un principio di giustizia legato al concetto di “battersi per sottomettere chiunque ostacoli” i valori sopramenzionati.
Posto in questi termini, tutto diviene per il lettore occidentale decisamente più complicato. Intanto perché l’uso corrente – sia popolare che specialistico – di “cultura” in occidente difficilmente riveste i significati espressi dal termine giapponese impiegato da Nakae Toju, sia perché il concetto di marzialità come combattimento in vista dell’imposizione di un assetto valoriale ci vede decisamente più cauti nell’approvarlo, se non del tutto scandalizzati.
Viviamo tempi violenti, non meno di quanto lo fossero i giorni del nostro autore. La differenza è che il nostro impianto culturale, e uso il termine secondo l’accezione corrente, si muove piuttosto nella direzione contraria rispetto a quella illustrata in questo detto, o almeno ci prova.
Sarebbe bello, e qui scrivo da occidentale nutrito di valori occidentali, che sapessimo donare un nuovo significato a queste parole antiche, senza idolatrare un’età e un luogo ritenuti migliori forse solo perché lontani e mal conosciuti da noi, ma piuttosto vivendo e praticando con rispetto le conoscenze che ci sono state trasmesse, dentro e fuori dal dojo, senza troppe ideologie.
Anche nella famosa citazione della ZNKR sullo spirito delle arti marziali che pratichiamo, come finalizzate alla pace e al miglioramento della società, si risente della lontananza da questo tipo di cultura antica, e non può sfuggire il fatto che praticare arti marziali dopo gli eventi della prima metà del XX secolo non possa essere la stessa cosa dei secoli precedenti. Né in Giappone, né in Europa. Forse, per tornare al nostro detto, il momento in cui cultura e marzialità si uniscono, e sono più feconde, è proprio quando sappiamo applicare una giusta distanza critica a ciò che facciamo e diamo per scontato. Già questo, credo, sarebbe un buon inizio per creare una realtà migliore in cui vivere, per tutti.