L’ultimo e forse più importante trattato di Takuan Sōhō prende il nome di Taiaki ovvero gli annali della spada Taia. Secondo la tradizione cinese la spada Taia è un antica lama leggendaria, decorata da pietre preziose e in grado di tagliare qualsiasi materiale, tra cui metalli e pietre durissime. Nessuno sarebbe in grado di parare i fendenti della spada Taia, che renderebbe virtualmente invincibile chiunque la brandisca. Nel contesto del nostro scritto, tuttavia, questa spada leggendaria diviene simbolo per una condizione acquisita nel tempo, attraverso lunghi mesi e anni di pratica, fino alla consapevolezza di un raggiunto stato di illuminazione.
Il cammino non è nutrito da eventi straordinari, le gemme preziose della spada Taia restano nascoste tra le pieghe del quotidiano e persino l’illuminazione non tradisce scostamenti dall’ordinario, che pure viene trasceso in qualcosa d’altro.
In questo linguaggio esoterico il maestro di Izushi trasmette un’importante lezione di vita, non limitata al mondo delle arti marziali: non basta voler ottenere un risultato, occorre in primo luogo comprendere il proprio limite in relazione ad esso, essere in grado di trasformare le proprie aspirazioni in obiettivi a lungo termine e ascoltare pazientemente le indicazioni di chi prima di noi ha percorso il medesimo cammino. Questo è l’inizio, ma il fine è la perseveranza stessa. La spada Taia non si trova al fondo di una caverna nascosta o in un paese lontano, è sempre lì, a disposizione di tutti, ma ci si può accorgere di essa soltanto dopo molti anni, forse tutta una vita, dedicata al raggiungimento di quel dato obiettivo.
Credo che la vera sfida consista proprio nel carattere ordinario di questo cammino: in un tempo lungo la vita presenta sempre altre priorità e difficoltà di vario tipo, di più o meno grande entità, offuscano la visione iniziale, animata dall’entusiasmo e tenuta accesa dalla novità. Già entro i primi dieci anni di pratica dello iaidō, come in molte altre discipline, si vede molto bene quanto alti siano i tassi di abbandono della pratica. Naturalmente questo non vuole essere un giudizio di carattere morale su nessuno, perché come ho detto le altre priorità esistono realmente e talvolta sono anche drammatiche, e ciascuno dovrebbe sentirsi libero di valutare con attenzione le proprie scelte. Il ragionamento invece qui è di carattere descrittivo: l’ordinarietà del cammino è ciò che lo rende duro, perché significa scegliere la ripetizione dell’uguale a fronte del cambiamento costante di noi stessi.
E questo non lo può insegnare nessun maestro. Certo i maestri indicano il percorso corretto mostrando le proprie tracce lasciate lungo il lungo tratto di strada già percorso, ma al massimo possono indurre il discepolo ad avanzare. La luce però appare da sé e al massimo la si può ricevere con gratitudine, nel movimento di riconoscimento proprio di ogni reale conoscenza. Tutto questo è affascinante e inquietante al tempo stesso e penso abbia il merito di spingere ciascuno a valutare autonomamente il percorso fatto fino a questo momento con occhi diversi e forse con una mente più aperta.
Bellissimi articoli Vittorio , scritti con prosa lucida e lineare .