A partire da questa primavera, il Maestro Ishido ha iniziato a tenere una serie di lezioni via zoom rivolte ai suoi allievi diretti in Europa, allo scopo di affrontare progressivamente lo studio approfondito delle varie serie che compongono lo Shindō Musō Ryū Jōdo.

Ritengo quindi che, ricollegandosi alla decisione del Maestro Ishido, quest’ultima edizione del consueto appuntamento di Jōdo di fine anno a Roma sia stata contraddistinta dalla prevalente attenzione rivolta da Vitalis Sensei allo studio del Koryū.

Ora, per cercare di comprendere meglio le ragioni alla base di queste decisioni, conviene forse spendere qualche parola sul significato e sul ruolo del Koryū nelle nostre discipline tradizionali.

Facciamo quindi un passo indietro.

Siamo a Fukuoka, nel Kyūshū, agli inizi del XVII secolo.

Musō Gonnosuke Katsuyoshi, creatore del jōjutsu, dopo avere gettato le basi della propria arte, si pose al servizio del clan dei Kuroda in qualità di maestro d’armi.

Sotto l’egida di questa potente famiglia, il jōjutsu poté prosperare indisturbato, trasformandosi progressivamente in un’arte riservata a pochi adepti, principalmente membri della casta militare con funzioni di sicurezza e di ordine pubblico.

Per questo motivo, la scuola arricchì ben presto il proprio bagaglio tecnico inglobando altre due tradizioni tipicamente appannaggio delle forze di polizia del periodo Edo: il Jittejutsu, ovvero l’arte di utilizzare il Jitte (una sbarra di ferro dalla cui impugnatura si diparte, ad angolo retto, una sorta di baionetta avente la funzione di bloccare la lama di un avversario) e l’Hojōjutsu, l’arte di utilizzare una corda per immobilizzare i prigionieri.

La prima prese il nome di Ikkaku-ryū Jittejutsu, la seconda Ittatsu-ryū Hojōjutsu: entrambe furono introdotte da Matsuzaki Kinzaemon, terzo caposcuola dello Shindō Musō-ryū jōjutsu, alla fine del XVII secolo.

Nonostante le premesse più che promettenti, la disciplina non fu risparmiata dalle consuete divisioni interne, tanto che, ad un certo punto, sembra che si contassero ben sette linee differenti di trasmissione, ciascuna ovviamente convinta depositaria della vera tradizione: in ogni caso, al termine del periodo Edo (1868), molte di esse si erano ormai estinte.

Verso la fine del XIX secolo, furono di particolare importanza le due figure di Shiraishii Hanjiro (1842-1927) e Uchida Ryōgorō (1837-1921), entrambi detentori del diploma di Menkyo Kaiden (la licenza di pieno insegnamento) per lo Shindō Musō-ryū jōjutsu.

Il primo introdusse nel curriculum della scuola l’Isshin-ryū Kusarigamajutsu, ovvero l’arte di maneggiare un’arma composta da un falcetto con, all’estremità dell’impugnatura, una catena; il secondo introdusse invece un’arte del tutto nuova da lui stesso ideata, l’Uchida-ryū Tanjōjutsu, un’originale commistione di tecniche mutuate dal jōjutsu utilizzando però un bastone da passeggio di derivazione occidentale.

Uchida Ryōgorō fu anche importante per essere stato il primo a gettare le basi per una diffusione del jōjutsu al di fuori dei ristretti limiti della prefettura di Fukuoka.

Stabilitosi a Tokyo agli inizi del ‘900, iniziò ad insegnare le proprie arti ed ebbe, tra i vari allievi, personaggi di primissimo piano quali Nakayama Hakudō, fondatore del Musō Shinden-ryū.

All’inizio degli anni ’20, Jigorō Kano, celebre fondatore del Judo, avendo assistito ad una dimostrazione di jōjutsu, chiese a Shiraishii Hanjiro, all’epoca riconosciuto come l’unico esponente rimasto dello Shindō Musō-ryū jōjutsu, di provvedere ad insegnare stabilmente quest’arte a Tokyo.

La scelta dell’anziano maestro ricadde sul suo talentuoso allievo Shimizu Takaji (1896-1978), già Menkyo Kaiden all’età di soli 23 anni.

Arrivato a Tokyo nel 1927, Shimizu riuscì ad introdursi negli ambienti tradizionalmente più vicini al jōjutsu, divenendo istruttore della polizia militare della marina imperiale.

Nel frattempo, alla morte di Shiraishii Hanjiro, il ruolo di esponente (Shihan) dello Shindō Musō-ryū jōjutsu venne assunto da un altro allievo del maestro, Takayama Kiroku (1893-1938), mentre a Shimizu venne riconosciuto il titolo di suo assistente (Fuku-Shihan).

Seguendo la linea prima di lui tracciata da Uchida Ryōgorō, Shimizu si prodigò instancabilmente per fare in modo che il jōjutsu uscisse dalla sterminata galassia delle innumerevoli tradizioni marziali locali, tutte ad alto rischio di estinzione a causa dei profondi cambiamenti in atto nella società giapponese dell’epoca: sua fu, infatti, l’intuizione che solo trasformando il jōjutsu in un’arte marziale di rilevanza nazionale si sarebbe potuto garantire ad esso maggiori probabilità di sopravvivenza.

Fu così che, nel 1940, Shimizu decise, per stare al passo con i tempi, di cambiare il nome della propria arte in Jōdo e di fondare la Dai Nihon Jōdokai (Associazione del Jōdo del Grande Giappone), della quale assunse la presidenza.

I frutti di questa scelta non tardarono a manifestarsi quando, al termine della guerra, il Jōdo di Shimizu, in quanto tecnica adottata dalla Polizia Metropolitana di Tokyo, non fu interessata dal divieto imposto alle pratiche marziali da parte delle forze di occupazione alleate.

Shimizu si rese ben presto conto che il sistema tradizionale di insegnamento della scuola male si adattava ad una più vasta platea di allievi, che in molti casi si trovavano a dover affrontare lo studio di tecniche molto complesse senza adeguate basi marziali.

Prendendo probabilmente spunto dall’esperienza di Jigorō Kano per il Judo, egli apportò alla disciplina notevoli cambiamenti, quali l’introduzione dei kihon, volti ad agevolare l’apprendimento di base.

Shimizu ideò anche due nuovi kataSuigetsu e Shamen – la cui forma molto diretta ed efficace si adattava particolarmente alle esigenze di utilizzo del Jo da parte delle forze di polizia.

Gli inevitabili contatti con il mondo del kendō spinsero Shimizu ad introdurre modifiche anche nel ruolo dell’Uchidachi, che assunse posture frontali e con il tallone posteriore sollevato; in generale, poi, tutti i kamae vennero mutuati dai Kendō No Kata, a loro volta elaborati a partire dal 1912.

Alla luce di quanto sopra, appare evidente quanto il Jōdo di Shimizu si fosse ormai differenziato dalla versione originaria, al punto che, a partire dagli anni ’50, si poteva parlare di due scuole distinte, quella di Tokyo e quella di Fukuoka.

In realtà, anche se alla morte di Takayama Kiroku il ruolo di rappresentante della scuola era stato assunto da Otofuji Ichizo (1899-1998), anch’egli allievo di Shiraishii Hanjiro, agli inizi degli anni ’60 Shimizu era unanimemente considerato il vero esponente dello Shindō Musō Ryū Jōdo.

Certo, la scuola di Fukuoka continuava ad esistere ma, essendo cristallizzata nelle sue forme secolari, tipiche dei Koryū tradizionali, risultava essere sempre più emarginata da quanto avveniva nella capitale.

Al contrario, il pragmatico Shimizu, proseguì nella sua opera di diffusione del Jōdo aprendo la pratica di questa disciplina anche ad allievi non giapponesi, per citarne uno l’americano Donn F. Draeger, vero pioniere dello Shindō Musō Ryū Jōdo tra gli occidentali.

Gli sforzi di Shimizu furono premiati quando il Jōdo venne ammesso a fare parte della Zen Nihon Kendō Renmei, la potente federazione volta alla diffusione e promozione del Budō armato giapponese fondata nel 1952.

In questo nuovo contesto, Shimizu operò, nel 1968, l’ultima fondamentale trasformazione della disciplina, ovvero la creazione di un nucleo compatto di tecniche, 12 kata tratti dallo Shindō Musō Ryū Jōdo, per una “alfabetizzazione di base” ad uso, in primis, dei praticanti di Kendō e di Iaido: era nato il Seitei Jōdo.

I pregi e i limiti della codificazione nelle nostre discipline meriterebbero forse una riflessione a parte: sta di fatto che, oggi, i praticanti di Jodo hanno a disposizione forme altamente standardizzate per apprendere i rudimenti della propria arte, partecipare a competizioni ed essere valutati nei passaggi di grado.

Accanto a questa realtà, continua ad esistere lo sterminato mondo del Koryū, fatto, come tutti i saperi tradizionali, di mille interpretazioni e mille varianti, a loro modo tutte corrette in quanto frutto della ricerca personale, unica e irripetibile, di chi ha dedicato una vita intera allo studio della propria arte: il Maestro.

Il Koryū indica quindi appartenenza, riconoscimento di un legame.

In quest’ottica mi sento quindi di interpretare le decisioni del Maestro Ishido di trasmettere, diffondere e quindi, in qualche modo, mettere al sicuro il Koryū che contraddistingue la linea di trasmissione Kiryoku.   

In quest’ottica, mi sento anche di citare il messaggio più volte ripetuto dal Maestro Rene Van Amersfoort nel corso dei suoi seminari: compito del vero praticante è quello di copiare e proteggere …. un patrimonio unico e, in quanto tale, inestimabile.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here