di Stefano Banti
Una sera come tante altre. Mentre esco di casa tutto bardato per l’allenamento di iaido e jodo, mi imbatto in John, un signore che conosco e con il quale scambio, ogni tanto, qualche parola.
Divertito ma senza invadenza, non è quel genere di persona, mi chiede: “Hi Stefano, where are you headed to dressed that way?”.
“Well, I’m going to my martial arts training” rispondo laconicamente e, intanto, mi preparo per le solite domande, dettate dalla curiosità e dalla giusta ignoranza sull’argomento. Invece lui mi osserva per qualche istante e poi mi chiede: “And do you enjoy it?”.
Sorpreso, rispondo di getto: “Of course, John. I’ve boing doing this for such a long time…”.
“Nice, good for you” risponde e la breve conversazione si conclude così.
In ritardo come al solito, salgo in auto e mi getto nel traffico di Malta dimenticando quasi immediatamente l’episodio.
Ma poi, la sera stessa, ripensando a quel breve scambio tra me e John, inizio a rendermi conto della profondità della sua domanda e dell’ inadeguatezza della mia risposta.
ENJOY: questa parola, quasi magicamente, ne contiene un’altra dentro di sè – JOY – che rimanda a stati d’animo ben più ricchi e complessi del semplice divertimento.
Perché la gioia è uno stato di viva, completa soddisfazione, è un appagamento globale, sia fisico che mentale, che forse ha a che fare, per chi ci crede, con la felicità.
Mi trovo allora a pensare che, per provare questo, non basta la pratica di una vita, magari lentamente trasformata in abitudine, in ripetizione di gesti che nascondono altri vuoti.
Penso, e mi viene da dire che tu, John, tu che non cerchi il cosa ma il come, certo sei un uomo saggio.
Ma quale come, però? Perché qui, di nuovo, si apre un mondo.
“Age quod agis”, dicevano i latini, persegui ciò che hai deciso di fare: un motto che ho tentato di fare mio tanto tempo fa.
Ma la dedizione, spesso, è nemica della gioia, almeno quando si trasforma in estenuante ricerca del risultato.
Allora il come può diventare un’ossessione, un costante confronto impietoso tra l’essere e il volere.
Chi cade in questa trappola diventa giudice spietato di se stesso e finisce inevitabilmente davanti ad un bivio: eccellere o abbandonare.
Il ricatto diventa costante: ogni insuccesso si amplifica, mentre ogni traguardo raggiunto, piccolo o grande che sia, viene annegato nel mare della insoddisfazione perchè, subito, un nuovo obiettivo arriva, con prepotenza, ad alzare la posta.
Mi trovo anche a pensare che, nel corso della mia vita, ho raggiunto molti traguardi importanti e forse, proprio per questo, ho sempre sopportato male i fallimenti.
Diciamo che l’indulgenza verso me stesso e, di conseguenza, verso gli altri non è mai stata una mia caratteristica.
Poi, con il tempo, forse più lentamente di quanto avrei voluto, le cose sono cambiate, ma questa è un’altra storia.
Cari amici, godiamo dei nostri giusti successi ma, soprattutto, impariamo a rispettare ed anche, perché no, ad amare i nostri limiti, ricordando che il fatto stesso di praticare con dedizione e purezza – age quod agis – ci garantisce questo diritto inestimabile a provare gioia nel fare ciò che facciamo.
Stefano Banti