La mente si ferma quando è trattenuta da un oggetto, un’azione, una riflessione, una preoccupazione la quale può essere di qualsiasi natura. Nell’ambito dell’arte marziale stessa fermarsi significa, ad esempio, osservare la spada in movimento mentre sta per colpire. La mente, fissa, si preoccupa della spada in sé, e non permette ai movimenti dello spadaccino di essere liberi e compiuti. In quel medesimo istante l’avversario ha la meglio. Occorre fare in modo che la mente non venga trattenuta dalla visione della spada che si muove per colpire. Occorre, altresì, entrare in sintonia con il ritmo della spada che avanza. 

Takuan Sōhō, Fudōchishinmyōroku I, in W. S. Wilson (a cura di), Takuan Sōhō. Lo Zen e l’arte della spada, traduzione italiana a cura di P. Gonnella, Mondadori, Milano 2001, p. 21. [ed. or: The Unfettered Mind, Kodansha International Ltd., Tokyo 1986.] 

Apro questa nuova rubrica sul celebre Takuan Sōhō presentando una sua citazione in cui ritengo che ciascuno possa ritrovare se stesso in almeno un momento della propria progressione nell’uso della spada. Sia nella pratica dello iaidō che in quella del kendō, almeno una volta, ma ad essere onesti ben più di una, si sperimenta questa condizione: vogliamo colpire il nostro avversario con la nostra spada, e nel tentare di farlo, sia poco prima che durante l’azione di furikaburi, proiettiamo il nostro pensiero sul movimento della nostra spada. Con somma delusione, notiamo che il nostro avversario ha nel frattempo anticipato la nostra intenzione con una controtecnica, o, nel caso specifico dello iaidō, percepiamo come ci sia una notevole dissonanza tra ciò che immaginavamo come un taglio efficace e quello riusciamo effettivamente ad esprimere, specie se teniamo in considerazione l’insieme del nostro corpo in movimento nell’atto di colpire. Come giustamente sottolinea l’antico maestro, in quel medesimo istante l’avversario ha la meglio. Nella pratica del kendō è relativamente semplice accorgersi che il risultato non è quello sperato, specie se ci si confronta con un praticante esperto: si manca il bersaglio e si viene colpiti. In uno scontro reale, quella sarebbe anche la fine dello scontro. Nello iaidō le cose sono più complesse, perché se è vero che con la pratica possiamo renderci conto da noi stessi se i nostri movimenti sono spezzati o il nostri muscoli sono tesi, non è sempre automatico comprendere da noi stessi in che cosa consistano i nostri errori. Certo, in entrambi i casi sarà il confronto con i compagni di pratica più esperti a mostrare con maggiore chiarezza le nostre mancanze, e quindi a spingerci a migliorare. 

Non voglio essere frainteso: quando si impara un kata è giusto analizzare i movimenti con precisione e attenzione, lentamente, ed è inevitabile che un principiante inserisca degli stop nella successione dei movimenti che compongono l’azione. Tuttavia, è bene che praticanti di livello più avanzato non facciano allo stesso modo. Dovrebbe restare la lentezza, e sparire ogni frattura nell’esecuzione. “Lento ma continuo” è un mantra che ogni praticante dovrebbe fare proprio. Questo pensiero Takuan Sōhō mi ha ricordato da vicino un’osservazione di Claudio Zanoni in un recente seminario, in cui giustamente ci diceva: “pensate troppo alla spada; ma lo iaidō non è lì, è nella pancia”. Credo che l’affermazione di Claudio sia molto vicina a quello che intendeva Takuan. 

Mi sono chiesto che cosa spinga la mente a fermarsi, come lui dice, su un oggetto o un’azione tanto da bloccarla e determinarne il fallimento. Analizzando la mia personale esperienza, sono giunto alla conclusione che sia una sola la radice ultima di questo errore, e sia la paura. La paura si manifesta in questo in primo luogo come proiezione, ansia di portare un’azione che crede di essere veloce, ma è in verità involuta nella rete del proprio pensiero: “se non attacco, muoio”; in secondo luogo, la paura si manifesta come insicurezza e per questa ragione spinge a riporre la nostra attenzione sull’oggetto da cui sembra dipendere la nostra salvezza, ovvero la spada. Inconsciamente siamo spinti a ricercare sicurezze e garanzie nella logica dei nostri piani e negli strumenti di cui ci serviamo per portarli a compimento. Ma questa paura non ci porta lontano, nemmeno nella vita. Occorre disfarsi di questa paura che ci tiene bloccati per poter liberare una pratica marziale finalmente efficace. Il che non è affatto facile né immediato. Infatti, al di ogni riflessione, sarà una pratica costante e attenta alle correzioni dei maestri a portare, a suo tempo, alla fine di questa paura, mettendo in movimento, insieme alla spada, anche il nostro pensiero nella fluidità dell’azione.

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