Per imparare a praticare iaido è necessario fare esperienza nell’arte dell’imitazione: tutti abbiamo sentito parlare di shu, ha, ri.
La prima volta che vediamo un nuovo kata o una tecnica che non ci è familiare, ci troviamo davanti a una difficoltà: come fare nostro quel movimento? Come tradurre un insieme di gesti che per noi non hanno senso in una possibilità d’azione pregna di significato?
In dojo ci viene insegnato ad avvicinare il più possibile l’azione osservata a quella che eseguiamo. Questa operazione viene modulata primariamente dalla nostra capacità di comprensione dell’azione osservata.
Uscire dal “patrimonio d’azione motorio” con il quale siamo cresciuti e apprendere qualcosa di nuovo richiede l’attivazione di due processi:
- dividere in segmenti l’azione da imitare in modo da ridurla in tecniche fondamentali;
- ricomporla in sequenze di dimensione e complessità crescenti in modo che si avvicini sempre di più all’azione del modello che vogliamo eguagliare.
Ho voluto mettere nero su bianco questi passaggi perché sembrano semplici, quasi banali, ma non lo sono. Direste forse che lo zenkenren è facile, dato che “si tratta solo di dodici kata”? Se state leggendo questo articolo, probabilmente no!
La ragione per la quale ogni possibilità di confronto è una risorsa preziosa, in questo senso, trascende tutte le ragioni etiche cui siamo abituati a dare primaria importanza: semplicemente, offrendo a noi stessi più esperienze, ci diamo maggiori possibilità di osservare ciò che dobbiamo imparare ad imitare.
Questo incrementa le nostre possibilità di ottenere il risultato sperato – e tornando rapidamente a shu, ha, ri migliore sarà il modello che noi stessi riusciremo a diventare, più possibilità ci saranno per il futuro della disciplina.
Lo studio dello iaido è organizzato in modo che un praticante possa studiare in dojo, aggiornarsi presso seminari, raffinarsi come competitore e, una volta raggiunti rispettivamente il terzo e il quarto dan, iniziare un percorso di formazione come arbitro, come allenatore e come istruttore.
Sono fermamente convinta del fatto che le occasioni di pratica e studio sopra elencate – senza eccezioni – siano tappe di un percorso esperienziale necessario ad arricchire il nostro “vocabolario etico/motorio di iaido”.
Sabato 11 settembre a Novarello ho potuto partecipare per la seconda volta ad un seminario arbitrale, avendo ottenuto la qualifica ai Campionati Italiani in estate. Il seminario arbitrale è uno spazio di confronto guidato, dove gli arbitri più esperti possono aiutare i principianti ad affinare le proprie capacità di giudizio valutando a turno degli shiai.
Arbitrare è un compito complesso, che richiede la comprensione e la padronanza dei parametri di giudizio ufficiali e il raffinamento della capacità di cercare nella pratica altrui i punti in cui questa aderisce e quelli in cui si discosta dai criteri di cui sopra.
Guardare la pratica altrui con il compito di giudicarla facendo un paragone diretto fra due atleti ha davvero molto da insegnare, poiché si deve essere estremamente ricettivi in una situazione stressogena e si possono ricavare davvero moltissimi spunti costruttivi per il proprio studio.
Forse l’aspetto che trovo più affascinante dell’arbitraggio è proprio questo, la facilità con cui ci si scopre o ci si trova alieni dall’altro, posto che la nostra esperienza è inevitabilmente il limite del nostro metro di giudizio (e quindi dovremmo farne il più possibile, anzi, mi spingo a dire che sarebbe auspicabile che fosse direttamente proporzionale alle nostre responsabilità in crescita… Compatibilmente con inaspettate pandemie planetarie).
Torniamo a noi: attraverso l’osservazione attenta di quello che succede nelle aree di gara possiamo imparare a scorgere sia gli errori che le “cose belle”, che a me piace chiamare “scintille”, nella pratica dei nostri compagni più e meno esperti.
In apertura ho scritto che è necessario imitare per apprendere: trovo che l’arbitraggio sia un’occasione di scambio impagabile, dove chi regge le bandierine ha la possibilità di fornire la propria inequivocabile prospettiva (che deve essere il più oggettiva e aderente possibile alle direttive giapponesi), mentre chi pratica offre il proprio enbu all’occhio dell’arbitro, rendendo il suo bagaglio esperienziale di iaidoka più pesante.
Sono molto grata alla CIK per aver creato questa occasione di pratica dove la Commissione Arbitrale e la Nazionale hanno potuto incontrarsi per beneficiare gli uni delle competenze degli altri, creando una sinergia positiva che a fine giornata ha lasciato tutti contenti e più ricchi.
