Spesso, quando pratichiamo, ci vengono indicati errori che non riusciamo a riconoscere. Si tratta di una problematica di cui anche la sensei Danielle Borra ha fatto menzione, nel suo penultimo articolo. Quando mi capita, provo una fastidiosissima sensazione di impasse e dalla rabbia passo alla frustrazione, quindi sopraggiungono tristezza e senso di inadeguatezza. In genere, poi, ad un certo punto mi stanco da sola di me stessa e di queste reazioni, allora provo a concentrarmi sulla gratitudine per le indicazioni ricevute, a mettere da parte il modo in cui mi sento, a far tabula rasa, ed inseguo il cambiamento con rinnovata determinazione. Non sempre, però, ho riscontrato che questo fosse sufficiente… Quanto segue è una riflessione molto personale, frutto di osservazioni arbitrarie.
Uno degli aspetti che mi piacciono di più, concettualmente, riguardo lo iaido, è il fatto che il kasoteki con il quale ci misuriamo sia alto e largo quanto noi. Questa indicazione, determinante a fini pratici, io l’ho sempre interpretata anche in modo più metafisico. Se uno degli scopi del budo è renderci persone migliori, allora forse quel kasoteki ha anche la nostra stessa faccia e la nostra stessa anima, e forse per imparare a sconfiggerlo veramente, oltre a lavorare sul piano tecnico, dobbiamo sforzarci di conoscerlo davvero.
Eccoci quindi davanti allo specchio, in dojo come a casa. Ci guardiamo e ci ricontrolliamo mille volte, per cercare di valutare la pulizia e la precisione della nostra tecnica, o, più onestamente, per cercare di capire da dove abbiano origine i nostri errori e per sperimentare l’efficacia delle correzioni che riceviamo e che cerchiamo di applicare, traducendole con il nostro fisico dopo averle più o meno filtrate con la nostra mente (tra l’altro, sarebbe meglio che questo filtro non esistesse proprio…).
Negli anni, grazie alla frequentazione di seminari e competizioni e alla presenza in nazionale, ho potuto incontrare moltissimi praticanti, fra i quali il maestro che ho deciso di seguire – anche se farsi chiamare così non gli piace, e lo sappiamo tutti. Rompendo il guscio della mia naturale timidezza, piano piano ho potuto conoscere alcune di queste persone, e mi sono resa conto che tutte quelle che mi hanno impressionata maggiormente appaiono dotate della stessa virtù: parlo di una sorta di trasparenza di intenti e di pensieri, una comunione di azione e filosofia, in parole povere mi hanno dato l’impressione di essere molto oneste.
Forse l’attività in dojo non basta. Ho iniziato a pensare che sia realmente necessario intraprendere un percorso quotidiano che vada oltre il cercare di tenere le anche basse e le spalle dritte mentre porto fuori il cane (semplificando). Se dobbiamo confrontarci con un kasoteki che siamo noi, come si può prescindere dal cercare di vederlo davvero, e accettarlo? Se non lo si fa, come si può pensare di lavorarci sopra e cambiarlo?
Penso a un servizio da caffè. Immagino un bel piattino con il centro preformato per accogliere una e una sola tazza. Devo trovare proprio quella: finchè crederò di essere migliore di come sono, sul mio piattino ci sarà una tazzona enorme che non potrà stare in equilibrio, e magari il mio caffè si rovescerebbe se ce lo versassi dentro. Finchè continuerò a sottovalutarmi e a disprezzarmi, al centro del mio piattino metterò una tazza minuscola che non mi disseterà e che apparirà incredibilmente sgraziata. Se riuscirò ad ammettere i miei difetti così come i miei pregi (e la seconda, per me, ha sempre rappresentato una sfida maggiore) forse riuscirò a trovare quella tazzina che si posiziona perfettamente sul mio piattino. Una volta trovata, potrò lavorarla. Se il manico è rotto, potrò tentare di incollarlo. Se c’è qualche crepa, potrò cercare di smaltarla. Se il colore della ceramica non si intona con quello del piatto, potrò provare a decorarla.
Ammettere a sé stessi di essere diversi da come si vorrebbe non è affatto semplice. Tuttavia, anche per quanto riguarda me stessa, la mia breve vita e il mio breve percorso nello iaido, ho l’impressione che, posto un duro lavoro in dojo, ai cambiamenti si siano sempre abbinati momenti di maturazione, in cui ho accettato qualcosa di me e ho capito che dovevo migliorarlo, o trovare il coraggio di mostrarlo platealmente ed espormi alla critica del prossimo, per comprendere, per maturare. Credo che concentrarsi su questo tipo di introspezione possa condurci ad un maggior rispetto per gli altri, e ci possa far apprezzare maggiormente il lavoro di senpai e sensei, che si sforzano di darci ogni volta il miglior esempio possibile da seguire.
Chiara Bonacina, 3 dan