Inizio con una precisazione doverosa, non sono laureato né in Filosofia né in Psicologia e quindi questo non vuole essere un trattato con delle premesse, uno sviluppo e delle conclusioni, sono solo delle riflessioni a caldo dopo quello che mi è successo in questi mesi. Anche se non ho le competenze universitarie le esperienze di vita a volte ci portano a dover riflettere su alcuni aspetti.
Il 18 Ottobre ho perso mia mamma dopo poco meno di un mese di ospedale. E’ stato un periodo terribile perché, oltre al fatto di avere una persona in ospedale, in questo momento si deve lottare anche con i problemi legati alla pandemia e quindi non si può accedere agli ospedali o andare a trovare le persone care ricoverate. Mia madre purtroppo quasi da subito non riusciva più a muoversi e nemmeno a rispondere al telefono, l’unico mezzo con cui potevamo sentirla. Riuscivamo a contattarla solo grazie alle persone ricoverate vicino a lei o a qualche infermiera che per “pietà filiale” o per come diciamo noi buon cuore l’aiutavano rispondendo al posto suo o chiamandoci o organizzando delle video chiamate, permettendoci quindi di avere un contatto quasi giornaliero con lei in questo momento particolare.
Una tortura per noi a casa ma deve essere stato anche peggio per lei. Un anziano di 86 anni da solo in ospedale è facilissimo che cada in depressione e così è successo; quello che sembrava un ricovero di pochi giorni è poi diventato sempre più grave fino alla sua morte.
Devo anche ringraziare “la pietà filiale” della dottoressa che l’aveva in cura in ospedale che mi ha permesso di vederla ancora una volta qualche giorno prima che mancasse.
Durante questo periodo, sicuramente difficile, ho cercato di mantenere fede agli impegni presi, sono dovuto mancare dalla palestra una volta perché impossibilitato a camminare per la schiena e una volta perché c’era il rosario di mia madre ma per il resto ho continuato ad andare in palestra per insegnare Iaido.
Ovviamente adesso sto vivendo un momento particolare, come si dice… sto elaborando il lutto e mille dubbi e domande mi assalgono: come figlio ho fatto abbastanza, mi sono comportato in maniera degna, sono riuscito a prendermi cura di lei, oppure ho fallito miseramente? Purtroppo questa è la terza volta che mi tocca affrontare questa situazione, prima per mio fratello che ho perso all’età di 29 anni per un incidente sul lavoro, poi per mio padre quando avevo 40 anni dopo una lunga malattia e adesso per mia madre. Ogni volta i sensi di colpa, i dubbi, le domande mi assalgono e mi fanno riflettere, credo sia normale.
Ho letto in questi giorni che la “pietà filiale” (xiaoshun) è un concetto che fa parte della tradizione e dell’etica cinese e consiste nel rispetto e amore per i propri genitori nell’età avanzata, amore che prevede il prendersi cura di loro, per un obbligo morale ed un dovere etico legato al rispetto, alla gratitudine, all’amore. Solo adempiendo in modo corretto a questo “dovere” si poteva essere considerati delle persone oneste e di parola.
Ovviamente l’accostamento al momento particolare della mia vita è scontato, meno scontato è il confronto con il dojo.
Noi siamo occidentali, ma pratichiamo un arte marziale Giapponese (la pietà filiale è anche molto sentita in Giappone) e, grazie al budo, dovremmo percorrere una via. Di questa via dovremmo prendere tutto quello che fa comodo ma anche quello che ci piace un po’ meno, poiché anche quegli aspetti fanno parte della via. Se proviamo a pensare ad un dojo Giapponese vediamo che il Sensei non è solo un insegnante ma è considerato alla stregua di un genitore e il gruppo è un po’ come una famiglia. Ho visto migliaia di scene nei miei viaggi in Giappone dove i vari Sensei anziani sono aiutati, accompagnati, accuditi in tutto e per tutto dagli allievi. Danielle una volta al Kyoto Taikai dopo aver visto un allievo accompagnare il suo sensei molto vecchio e un po’ instabile dentro il Butoku kai ha detto semiseria ad Alessio: “ecco quando avrò 80 anni e tu sarai ancora giovanissimo con i tuoi 67 anni mi porterai così a vedere il Kyoto Taikai”.
Il Sensei ha usato il suo tempo e la sua conoscenza per trasmettere quello che conosce ai suoi allievi e questi gli sono riconoscenti, in vari modi ovviamente, non solo nell’accudimento una volta che sarà anziano o nei momenti di difficoltà, come può essere un periodo di ricovero in ospedale, ma come ben sappiamo nel comportamento all’interno del dojo e fuori dal dojo, in modo che il nome del maestro non possa essere infangato dal comportamento dell’allievo.
Una delle regole del dojo di Ishido è che se l’allievo non pratica e non si reca in dojo per un certo periodo di tempo, mi sembra 2 mesi ma non ricordo benissimo, senza un valido motivo perde lo status di allievo.
La riflessione che ho fatto in questi giorni mi farà probabilmente perdere altri allievi o creerà scontenti vari perché, come dice Alessio, sono sempre “molto delicato” con le mie comunicazioni. Come sapete questo è il mio modo d’essere e una cosa che veramente in questo ultimo periodo mi disturba profondamente è l’ipocrisia quindi non voglio essere io il primo a essere ipocrita. Poi mi conoscete bisogna prendermi per quello che sono.
La pratica dovrebbe essere gioia, praticare dovrebbe essere un momento in cui stacco da tutti i problemi della mia vita e mi concentro su una cosa che mi fa stare bene. Se troviamo mille motivi che rendono più importante la cosa che devo fare rispetto alla pratica vuol dire che c’è qualcosa che non quadra, qualcosa si deve essere rotto nello schema che avevo costruito e nel progredire sulla mia via, non nascondiamoci dietro un dito. In dojo, noi e gli allievi più anziani, abbiamo visto molte volte succedere questa cosa e abbiamo avuto un sacco di esempi davanti agli occhi.
Vi starete chiedendo cosa centra tutto questo con la pietà filiale? Ci sto arrivando, pratichiamo un’ arte marziale giapponese ma tendiamo a volerla praticare come occidentali, lo dico spesso. Siamo spesso superficiali e questo ci fa perdere molti degli insegnamenti che ci sono sulla via. Nello specifico il fatto di non praticare con impegno e con costanza è una mancanza di rispetto verso chi sta li ad insegnarvi, verso coloro che usano il loro tempo e le loro energie per darvi quello che un tempo, forse, avete considerato come primario e che molti fuori dal nostro dojo ancora considerano come primario.
Si lo so molti staranno pensando che sono come sempre polemico, rompiscatole e non capisco ma quello che vorrei chiarire è che in Giappone probabilmente non potreste comportarvi in questo modo. La differenza è solo una questione di mentalità qui è “pago la quota e quindi faccio quello che voglio” li è il “Maestro mi permette di imparare gli sono grato“. E’ un’attitudine culturale ovviamente ma questa differenza di mentalità crea un gap, un salto importante.
Come sapete non mi ritengo e non mi pongo come un Sensei, avendo ben in mente che un Sensei è per esempio Ishido Sensei, e non mi serve il rispetto, oramai sono abbastanza grande da capire che è una battaglia persa in partenza. Non è perché io voglio qualche cosa che sto scrivendo queste righe. A me non serve nulla e non ho aspettative. Non ci sarà una conclusione in queste riflessioni ma come ho detto all’inizio solo altre domande.
Sono stato un buon figlio? Ho fatto le scelte giuste? Sono stato di aiuto ai miei genitori? Ma allo stesso tempo parlando di dojo: sono stato un buon allievo? Sarò un degno erede di quello che il mio Maestro mi ha trasmesso? Sono stato d’aiuto al mio Maestro?
Tutto qui anche perché, come dice una persona che reputo amica, “in questo momento in cui molte nostre convinzioni e sicurezze sono state spazzate via da una pandemia, riflettere su cosa siano le cose importanti per noi è sicuramente un passo fondamentale.”