Tornando alle arti marziali, si può dire che la mente non deve essere occupata dalla mano che sfodera la spada. Si deve, invece, colpire e trafiggere l’avversario dimenticandosi completamente della mano. Non bisogna, altresì, che l’avversario occupi la nostra mente. L’avversario deve essere simile al Vuoto. La mano che impugna la spada, la spada stessa, è il Vuoto. Occorre comprendere questo, ma non si può permettere che la mente sia occupata dal Vuoto stesso.

Takuan Sōhō, Fudōchishinmyōroku IX, in W. S. Wilson (a cura di), Takuan Sōhō. Lo Zen e l’arte della spada, traduzione italiana a cura di P. Gonnella, Mondadori, Milano 2001, p. 47. [ed. or: The Unfettered Mind, Kodansha International Ltd., Tokyo 1986.]

Chiunque abbia praticato iaido con una qualche serietà, avrà sentito ripetersi queste frasi centinaia di volte: “ricordati della sinistra!”, “non c’è abbastanza sayabiki!”, “la sinistra!”; oppure, per i gradi più avanzati: “ricordati di guardare!”; “prima guarda, poi taglia!”; “hai guardato prima di muoverti?”, “Metsuke!”. Si potrebbe arricchire questa rassegna con molte espressioni simili. Il significato di queste parole è chiaro: l’insegnante ci richiama a qualcosa che stiamo trascurando, perché stiamo ancora imparando ad acquisire quello che non è ancora stato assimilato dal nostro corpo come un automatismo.

Ma allora perché Takuan Sōhō ci dice di non pensare alla mano sinistra, e di non pensare all’avversario, cioè, nello iaidō moderno, al metsuke? Qualche lettore occidentale potrebbe travisare profondamente le parole del maestro, parafrasandole come “l’importante è che funzioni” oppure “la sostanza vale più della forma”. Niente di più sbagliato.

Le parole del maestro non possono essere utilizzate come scusa per non apprendere correttamente il kihon alla base dello iaidō. Chi intendesse in questo modo, già di per sé dimostrerebbe di non essere in grado di applicare senza pensare un corretto sayabiki e un corretto metsuke. Il livello di riflessione a cui si pone il maestro non è quello di un principiante nella pratica. Perché quello che dice il maestro di Izushi abbia un senso, occorre già essere in possesso di automatismi sviluppatisi nel corso di molti anni di studio. Pensando al moderno iaidō, si potrebbe forse dire che questi obiettivi dovrebbero essere del tutto assimilati intorno al grado di quinto dan. Circa 12 anni di pratica assidua, come minimo. Naturalmente il margine di errore continua ad esistere ad ogni livello, ma il punto fondamentale è che non ha alcun senso immaginare di applicare questo tipo di considerazione nonostante la presenza di macroscopiche imperfezioni nella propria pratica. Tutto è Vuoto quando la presenza si manifesta pura nell’azione, senza distrazione, senza blocchi in questo o quell’elemento della nostra pratica.

In un vecchio contributo su questo sito, si parlava della “pista cifrata” che il principiante deve tenere a mente nel processo di apprendimento e perfezionamento di una forma. Eppure viene il tempo in cui anche connettere i punti l’uno dopo l’altro si trasforma in ostacolo alla piena realizzazione della propria tecnica, perché la presenza ne sarebbe irrimediabilmente compromessa. Allo stesso modo, sarebbe un errore il cominciare a pensare al Vuoto sforzandosi di liberare la mente durante la pratica. Semplicemente non è possibile. Il Vuoto o è totale, o non è vuoto. Il Vuoto si manifesta, ma non si cerca, perché è una conseguenza della fiducia in se stessi (confidence) sviluppata lungo anni di duro allenamento. È una sensazione assai difficile da descrivere, e personalmente non credo di averla ancora vissuta nella pratica dello iaidō. Forse non è lontana alla condizione di flow che si sperimenta talvolta nell’esecuzione presente ed efficace della composizione di un testo scritto o di un’opera d’arte, ma non posso garantirlo. Per quanto mi riguarda, la mia mente avrà ancora bisogno di concentrarsi sul tanden, e di visualizzare bene l’avversario.

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