1. Colonialismi a confronto

I primi europei ad arrivare in Giappone furono i Portoghesi.
Perché loro e non altri è presto detto.
All’indomani del primo viaggio di Cristoforo Colombo, papa Alessandro VI era intervenuto nella disputa sorta tra le potenze coloniali dell’epoca per il controllo delle terre d’Oltreoceano.
Avvenne allora che, con il Trattato di Tordesillas del 1494, il mondo al di fuori dell’Europa venne diviso in due zone d’influenza esclusiva lungo una linea posta 370 leghe ad ovest delle Isole di Capo Verde: le terre ad est di questa sarebbero appartenute al Portogallo, quelle ad ovest alla Spagna.
La svolta per il Portogallo arrivò pochi anni dopo, quando Vasco da Gama riuscì per primo nell’impresa di raggiungere l’Asia direttamente dall’Europa attraverso una rotta oceanica.
Fu quindi così che, nel corso del ‘500, mentre gli spagnoli si dedicavano a conquistare e saccheggiare le Americhe, i portoghesi concentrarono i propri sforzi in Oriente, stabilendo avamposti a Goa, a Malacca, nelle Molucche e a Macao.
Questa suddivisione del mondo ebbe importanti conseguenze, principalmente dovute alle differenti caratteristiche dei due sistemi coloniali.
Mentre infatti la Spagna ripropose in America la propria struttura socio-economica feudale, fondamentalmente basata sul controllo e lo sfruttamento territoriale, il Portogallo optò per la conquista di zone relativamente piccole, per lo più costiere, da utilizzare come basi per effettuare, più o meno pacificamente, scambi commerciali con gli stati locali.

2. Il Giappone feudale

Ai fini di una corretta analisi dei primi contatti tra Giappone e Occidente, può risultare utile una breve descrizione della realtà istituzionale e sociale che i portoghesi trovarono su queste remote isole.
La tradizione vuole che Jinmu, il capostipite della dinastia imperiale vissuto intorno al VII secolo a.C., fosse addirittura un pronipote di Amaterasu, dea del Sole.
Secondo le più antiche cronache giapponesi esistenti, il Kojiki e il Nihonshoki, la famiglia imperiale avrebbe mantenuto una discendenza continua, per cui questa dinastia, con i suoi 1500 anni di storia, sarebbe la più antica oggi esistente.
Se l’ascendenza divina ha garantito alla figura dell’imperatore un forte valore simbolico, le vicissitudini storiche hanno invece assegnato il reale potere politico ad alcune potenti famiglie di origine estranea a questa discendenza.
A partire dal decimo secolo, l’affermazione della casta militare dei samurai, unita alle inevitabili dispute tra i vari clan concorrenti, contribuirono ad indebolire ulteriormente il potere centrale determinando una grande instabilità politica nel paese.
Questo periodo convulso e violento culminò con la guerra Genpei (1180-1185), che vide il clan Minamoto prevalere sulle fazioni rivali: nel 1192, Minamoto no Yoritomo, esponente di questa famiglia, acquisì il titolo di Shogun, formalmente capo militare, di fatto detentore del potere effettivo.
Questo nuovo assetto istituzionale non valse tuttavia a sanare le tendenze centrifughe tipiche del paese, con un potere centrale debole e sostanzialmente incapace di controllare gli inquieti signori locali (Daimyō), desiderosi di sempre maggiore autonomia.

3. L’incontro tra due mondi

Il carattere pragmatico del colonialismo portoghese – finalizzato non tanto alla dominazione territoriale quanto alla apertura di proficui scambi commerciali – e la frammentazione del potere locale agevolarono, almeno nella fase iniziale, l’incontro tra queste due civiltà così lontane tra loro non solo in senso geografico.
Fernão Mendes Pinto (1509-1583), esploratore, mercante e missionario a tempo perso, fu tra i primi portoghesi a mettere piede sul suolo giapponese.
Nel suo libro autobiografico intitolato Peregrinação – Peregrinazione – pubblicato postumo nel 1614, Pinto narra di questi primi contatti tra le basi portoghesi nel sud-est asiatico e il Kyūshū, che avrebbero dato inizio al cosiddetto periodo del commercio Nanban, ovvero del commercio con i “barbari meridionali”, dal termine utilizzato dai giapponesi dell’epoca per indicare gli europei in quanto questi nuovi visitatori provenivano dall’India e le loro usanze erano certamente poco raffinate rispetto agli standard locali.

4. Il ruolo dei Gesuiti

Nel frattempo, in Europa, l’evoluzione spirituale di un nobile basco dedito al mestiere delle armi – Ignazio di Loyola – avrebbe giocato un ruolo determinante nelle relazioni tra Occidente e Giappone.
Ferito gravemente in combattimento, Ignazio abbandona la vita militare, studia le scritture e prende i voti.
Divenuto celebre per le sue visioni mistiche, viene accolto benignamente a Roma da papa Paolo III che, nel 1540, concede l’approvazione pontificia ai Capitoli costitutivi della comunità religiosa da lui costituita: nasceva così la Compagnia di Gesù, destinata a diventare uno dei più attivi e influenti ordini religiosi della chiesa cattolica.
I Gesuiti manifestano subito la propria vocazione militante intraprendendo un’ intensa attività missionaria nei paesi d’ oltremare.
In Oriente, il loro impegno fu grandemente supportato dal desiderio del re di Portogallo Giovanni III di evangelizzare quelle popolazioni lontane.
Già nel 1541 il gesuita spagnolo Francesco Saverio lasciava Lisbona alla volta di Goa, in India.
Nel 1545, il sacerdote si spinse ulteriormente a oriente, raggiungendo Malacca.
Qui, a quanto pare, Francesco Saverio incontrò il nostro Fernão Mendes Pinto di ritorno dal Giappone in compagnia di un certo Anjirō (o forse Yajirō) che, battezzato da Saverio con il nome di Paolo della Santa Fede, divenne verosimilmente il primo giapponese convertito al cristianesimo di cui si abbia notizia.
Questo incontro fortuito fu determinante in quanto Anjirō, descrivendo al sacerdote il proprio paese, lo impressionò a tale punto da indurlo a recarsi personalmente in Giappone.
Nel 1549, i tre sbarcarono a Kagoshima, importante città del Kyūshū, dove, con l’appoggio di un Daimyō locale, Francesco Saverio potè iniziare la sua attività di proselitismo operando un numero abbastanza rilevante di conversioni.
L’anno successivo, il missionario lasciò il Kyūshū e si spinse più a nord, nell’Honshū.
Presentandosi come inviato ufficiale del re del Portogallo, venne anche qui accolto benevolmente da Ōuchi Yoshitaka, Daimyō di Yamaguchi, il quale non solo gli consentì di predicare liberamente la dottrina cristiana, ma mise a sua disposizione anche un tempio buddista abbandonato, che Francesco Saverio adibì a proprio quartiere generale.

5. Il nobile Ōmura Sumitada

La vicenda personale di questo nobile giapponese è interessante in quanto indicativa del clima convulso dell’epoca.
Coinvolto nelle consuete lotte di potere e vedendo vacillare la propria posizione di comando, Sumitada decise di cercare l’appoggio di un alleato esterno agli intrighi locali, vale a dire gli europei.
Egli concesse speciali privilegi commerciali ai portoghesi nei territori sotto il suo controllo e, nel 1563, ricevette il battesimo con il nome di Bartolomeo, passando alla storia come il primo Daimyō convertito al cristianesimo.
Nel 1574, a seguito di un nuovo intervento dei portoghesi a suo favore, Sumitada fu costretto a cedere alle pressioni dei gesuiti volte ad estirpare ogni forma di “paganesimo” nelle sue terre: i templi furono distrutti e la popolazione fu obbligata a convertirsi in massa al cristianesimo.

6. Alessandro Valignano

L’opera di Francesco Saverio fu portata avanti dal suo successore, l’italiano Alessandro Valignano.
Sbarcato in Giappone nel 1580, egli trovò Sumitada impegnato nelle immancabili dispute contro i Daimyō delle prefetture confinanti e, come al solito, il suo appoggio fu ricompensato profumatamente: questa volta, i gesuiti ottennero i diritti di gestione esclusiva del porto di Nagasaki che, da quel momento, divenne la porta di accesso degli europei in Giappone.
Valignano trasformò in breve tempo un piccolo porto di pescatori in un fiorente centro commerciale grazie ai ricchi traffici di merci con Macao, gestiti anch’essi dai gesuiti su concessione esclusiva della corona portoghese.
Alla fine del ‘500, la missione in Giappone era ormai divenuta la più importante fonte di reddito della Compagnia di Gesù, in grado di finanziare agevolmente tutte le altre missioni dei gesuiti in Asia.
Ma, al di là dei floridi affari, Valignano fu anche e soprattutto un personaggio veramente illuminato.
In un’epoca caratterizzata da contatti brutali con le popolazioni indigene, egli sostenne fin da subito la necessità di proseguire l’opera di evangelizzazione senza intaccare la cultura e le tradizioni locali, verso le quali nutriva un profondo senso di rispetto e ammirazione.
Già nel 1581 Valignano redigeva a tale fine il “Cerimoniale per i missionari in Giappone”, vero codice di comportamento indirizzato ai suoi confratelli impegnati nell’attività missionaria sull’isola.
Studioso egli stesso della lingua giapponese, Valignano curò anche personalmente la redazione di una grammatica e di un vocabolario di questa lingua ad uso dei missionari.

7. Una visita insolita

Nel 1582, Valignano maturò un progetto veramente straordinario volto ad accrescere la consapevolezza reciproca tra due mondi così lontani.
La cosiddetta “ambasciata Tensho”, da lui promossa, fu la prima missione diplomatica giapponese inviata in Europa.
La delegazione, composta da quattro giovani seminaristi giapponesi di alto lignaggio personalmente scelti da Valignano e guidata da un padre gesuita con la funzione di interprete, partì dal porto di Nagasaki nel febbraio del 1582 per un viaggio che durò complessivamente oltre otto anni.
Transitando per le colonie portoghesi di Macao e Goa, il gruppo sbarcò finalmente a Lisbona nell’agosto del 1584, dove furono accolti con onori dalla nobiltà locale.
Successivamente, il gruppo raggiunse Madrid e venne presentato a Filippo II, divenuto pochi anni prima anche re di Portogallo a seguito di una disputa dinastica: qui la delegazione consegnò una lettera di sottomissione dei vari Daimyō convertiti alla corona spagnola.
L’anno successivo, la delegazione giapponese fece vela verso l’Italia.
Sbarcata a Livorno nel marzo del 1585, essa proseguì per Firenze dove venne anche qui accolta benevolmente da Francesco I, Granduca di Toscana.
Ma la loro destinazione principale era certamente Roma, dove ad attenderli vi era il papa in persona, Gregorio XIII.
Qui avvenne che, pochi giorni dopo l’arrivo dei giapponesi, il papa morì improvvisamente e il suo successore, Sisto V, anch’egli ben disposto verso i curiosi visitatori, li insignì della cittadinanza onoraria romana e donò loro una chiesa nel rione di Trastevere, Santa Maria dell’Orto, ancora oggi luogo di culto della comunità cattolica giapponese di Roma.
Infine, l’ambasceria si diresse verso nord visitando varie altre città italiane, tra cui Ferrara, Venezia, Mantova e Milano. Raggiunta Genova, il gruppo si imbarcò per Lisbona per fare ritorno in patria.
Il 21 luglio 1590, i presbiteri giunsero nuovamente a Nagasaki dove trovarono però una situazione assai differente rispetto a quella che avevano lasciato otto anni prima.

8. La parabola discendente

La predicazione del cattolicesimo in quelle terre aveva dato ottimi frutti anche dal punto di vista delle anime, con la creazione di una significativa comunità cristiana.
Tuttavia, nonostante i successi iniziali, la situazione politica interna restava comunque molto instabile, sopratutto a causa della debolezza del potere centrale e delle continue lotte per il predominio tra i vari feudatari.
Infatti, l’arrivo degli europei in Giappone coincise con la fase culminante del cosiddetto periodo Sengoku, o degli stati combattenti, che ridusse drasticamente il numero dei Daimyō da circa 300 a meno di 20.
In questa fase giocò un ruolo determinante Oda Nabunaga, da molti considerato una delle figure più importanti della storia giapponese.
Proveniente da una famiglia della piccola nobiltà, Nabunaga riuscì, grazie alle sue non comuni doti strategiche, a riunificare buona parte del paese cogliendo una serie strepitosa di vittorie militari, come quella di Nagashino (1575), ottenute soprattutto con un impiego massiccio delle nuove armi da fuoco introdotte dai portoghesi.
Nabunaga fu un estimatore della cultura occidentale e, molto probabilmente, fu uno dei primi giapponesi di alto rango ad indossare anche abiti europei.
Le reciproche affinità agevolarono l’instaurarsi di un rapporto di amicizia e rispetto tra il Daimyō e Valignano, il quale seppe mettere a frutto questo influente appoggio per espandere ulteriormente la propria opera di evangelizzazione.
Ma, come si diceva, il destino aveva programmi ben diversi per il nostro valente gesuita.
Nel 1582, Valignano, considerando la situazione sull’isola estremamente favorevole, partì per una visita delle altre missioni gesuite in estremo oriente lasciando Gaspar Coelho alla guida della comunità in Giappone.
Quello stesso anno, Nabunaga, al culmine del suo potere, cadde vittima di una congiura e fu costretto a suicidarsi.
La sua opera di unificazione fu continuata da un suo generale, Toyotomi Hideyoshi, il quale dimostrò ben presto un atteggiamento assai meno favorevole nei confronti dei gesuiti.
Coelho aveva infatti adottato una strategia alquanto spregiudicata di intromissione nella politica interna promettendo al migliore offerente l’appoggio delle truppe e delle navi da guerra portoghesi.
Ormai, molti in Giappone avevano iniziato a vedere con sospetto i gesuiti, considerati alla stregua di spie inviate da potenze lontane in preparazione di una possibile invasione.
Nel 1587, Hideyoshi emanò un decreto di espulsione per i gesuiti: anche se non applicato in modo rigoroso al fine di non penalizzare i floridi commerci con Macao, questo provvedimento chiuse per sempre il grande progetto di Valignano in terra giapponese.

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