di Luigi Rigolio – 6° dan Kendo; 5° dan Jodo
28 gennaio 2016
Ringrazio per la considerazione che mi ha dimostrato Danielle (*) chiedendomi di scrivere un articolo sull’insegnamento, un tema che sta beneficiando di un crescente interesse tra gli istruttori delle discipline della CIK e da parte della stessa Federazione.
Da quando, decenni fa, ebbi l’opportunità di ricevere l’insegnamento di Inagaki Sensei, Hanshi di Kyudo (disciplina che allora praticavo), vidi con chiarezza un sentiero parallelo ma non sovrapponibile alla crescita “tecnica”. Ero alle prime armi come Istruttore e compresi, osservando all’opera quello straordinario insegnante, che non potevo basarmi su improvvisazione e buon senso, ma dovevo attingere a tradizioni e conoscenze specifiche.
Per nostra fortuna le opportunità di imparare sono molte.
Possiamo fare riferimento, nel bene e nel meno bene, ad altri insegnanti, che sono più avanti (Sensei), e allo stesso tempo attingere a fonti scritte, che ci permettono di confrontarci con i grandi del passato e con i “guru” del presente.
Ci sono
- testi “storici”, scritti in oriente e nello stesso Giappone, come in occidente (la nostra è la patria di un genio dimenticato (da noi italiani) della pedagogia, Maria Montessori)
- testi “recenti”, che riportano teorie e metodi più recenti, nati e sviluppati in contesto aziendale o sportivo.
Sport e business hanno infatti bisogno di manager e coach in grado di agire sulla “performance” di atleti e dipendenti.
E’ qui importante sottolineare che ciò che viene proposto nel Business o nello Sport deve essere calato nel Dojo con attenzione, in quanto gli obiettivi di chi deve formare campioni o generare profitto sono diversi da quelli del Budo, come pure l’etica e le motivazioni delle persone!!! Fatta la tara, utili contaminazioni possono avvenire tra mondi diversi, in quanto i meccanismi di apprendimento hanno forti similitudini.
Il modello di Ken Blanchard e collaboratori, proposto dagli anni ’90 con il titolo di “Leadership Situazionale”, mi sembra integrabile nel contesto del Budo in modo utile e sicuro.
Quando affrontiamo una nuova attività, quale lo studio di una lingua o un nuovo hobby, attraversiamo, secondo Blanchard, 4 fasi:
- la fase dell’entusiasmo iniziale, caratterizzato da alta motivazione e bassa competenza (conoscenza + capacità). Siamo innamorati dell’idea di iniziare un’attività nuova della quale conosciamo poco.
- la fase della disillusione/frustrazione, dove la competenza è ancora bassa e la motivazione vacilla o crolla, in quanto percepiamo una sproporzione tra la difficoltà del compito e le nostre possibilità. La voglia di abbandonare può prevalere.
- la fase dell’autonomia, ove la competenza è cresciuta, ma la motivazione è ancora fragile, ciò che emerge quando è il momento di affrontare situazioni extra-ordinarie. (ad esempio un esame impegnativo piuttosto che una gara).
- La fase dell’indipendenza, ove la competenza è solida ed il praticante mantiene la motivazione sia di fronte a sfide extra-ordinarie sia a valle di un insuccesso (ad esempio la bocciatura ad un esame).
Blanchard e coll. hanno ipotizzato che un “manager” debba modulare il proprio intervento in base allo stadio di sviluppo raggiunto dal collaboratore.
Hanno definito, specularmente alle 4 fasi della crescita, altrettanti approcci alla supervisione:
1) la “direttività” è necessaria per il principiante nella fase dell’entusiasmo. In questa fase l’insegnante deve fornire istruzioni, mostrando il “come si fa”. Non è necessario supportare la motivazione, in quanto è già forte.
2) il “coaching” serve per il principiante nella fase della disillusione/frustrazione. Il “supervisore” deve
- continuare a lavorare sul piano “cognitivo” (cosa fare e come farlo) , indagando la causa delle difficoltà. In questa fase le domande sono molto più utili della ripetizione dei concetti già espressi e può essere necessario dare semplici obiettivi ravvicinati (concentriamoci su come affrontare il passaggio del IV Kyu…).
- sostenere la motivazione. In questa fase il “supervisore” (che un tempo veniva chiamato “capo”) deve investire molto tempo ed energie emotive, in quanto il rischio di “dimissioni” è alto (e nel nostro contesto il rischio è ancora più alto, in quanto il principiante non ricava un reddito dalla pratica …).
Stante che il principiante può passare dalla fase entusiasmo alla fase “frustrazione” dopo pochi allenamenti, l’Istruttore deve essere pronto a cambiare radicalmente approccio in poco tempo, abbandonando il sistema “spiego e dimostro”.
3) Approccio “supportivo”, quello necessario per la persona ormai autonoma. Bisogna in questa fase fornire sostegno psicologico particolarmente in prossimità di sfide impegnative. Il supporto va offerto anche a valle di un insuccesso, che può essere vissuto come fallimento personale piuttosto che come incidente di percorso. In questa fase i suggerimenti vanno sicuramente a minare la fiducia (“l’Istruttore mi ripete sempre lo stesso consiglio. Pensa che io non capisco? Forse sono un incapace?”), quindi la “direttività” è fortemente sconsigliata.
4) “Delega” è la parola chiave per rapportarsi con chi raggiunge la fase dell’indipendenza in quanto un collaboratore indipendente, definibile anche “Senior”, non richiede (quasi) alcun intervento del “capo”, che finalmente libera del tempo da dedicare ad altri compiti. Nel business l’obiettivo dello sviluppo professionale è raggiunto! Il “Senior”, che ottiene quotidiane soddisfazioni dalla propria “performance”, reagisce molto male ad ogni tentativo del supervisore di fornire suggerimenti supporto emotivo. E’ lui a chiedere, in base al proprio arbitrio, aggiornamenti o approfondimenti. Solitamente si rivolge ad un “Guru” (che non è mai il “capo”) dal quale ritiene di ricevere una competenza iper-specialistica. Il “capo” può sentirsi minacciato nella “leadership”, in quanto tutti si rivolgono al “Senior” per ricevere suggerimenti tecnici ed indicazioni. Bisogna lasciarlo sul piedistallo a prendere gli applausi…
A questo punto normalmente i manager chiedono: “Tutti i miei collaboratori possono diventare Senior?”.
In contesto professionale osserviamo che, in mancanza di quelle risorse personali che sono state definite “talenti” (nel senso biblico di “eredità”), il collaboratore non va oltre il livello dell’apprendista disilluso, per quanto impegno possa mettere in campo. Nel contesto aziendale un collaboratore che non arriva all’autonomia costringe il manager a investire molto tempo per compensarne le inefficienze (ritardi di consegna, errori, sprechi, eccetera…), senza che si veda un’evoluzione. Non rimane che prendere il coraggio a due mani ed iniziare un percorso di ri-orientamento professionale!
Nelle nostre discipline le cose un po’ stanno diversamente, ed entrare nel tema dei “talenti” utili per Iaido e Kendo ci porterebbe in un terreno minato…
Viceversa è per noi utile sapere ciò che hanno rilevato Blanchard e collaboratori studiando i manager all’opera. Una loro ricerca ha misurato quanto i “capi” fossero in grado di modulare il loro approccio in base alle necessità dei singoli collaboratori.
E’ risultato che circa l’1% dei manager erano perfettamente “situazionali”, ovvero in grado di interpretare i 4 stili di supervisione, il 4% del campione sapeva interpretare 3 stili, circa il 20% dei manager 2 stili, mentre quasi l’80 per cento dei “capi” utilizzavano solamente uno stile di “leadership” per tutti i collaboratori.
Calando tale ricerca nei nostri Dojo, ove ipotizziamo che la distribuzione sia analoga, quali situazioni avremo?
Vediamo un esempio.
Un insegnante con “leadership direttiva”, che interpreta il proprio ruolo esclusivamente “Spiegando e dimostrando”, sarà percepito bene dai principianti, desiderosi di ricevere informazioni. Viceversa, via via che i praticanti crescono, raggiungendo maggiore autonomia, tale approccio finisce per diventare controproducente, incrinando la relazione, e provocando abbandoni della pratica superiori a quelli fisiologici. Questi insegnanti saranno sempre alle prese con principianti, gli unici disponibili ad accettarne la “direttività”.
Cosa fare?
Il primo passo è l’acquisizione di consapevolezza. Mi permetto di fare il mio caso: a valle dell’auto-analisi che mi ha portato a comprendere che la mia “leadership” è sempre e solo “delegante” (ahimè appartengo all’ottanta per cento dei mono-stile…), mi sono reso conto di essere poco adatto per l’insegnamento ai principianti, che a più riprese mi hanno confermato di non essersi sentiti considerati alle prime lezioni. Per questo affido volentieri i principianti ad altri istruttori più inclini a fornire indicazioni ed istruzioni. Viceversa le persone autonome ed indipendenti si trovano molto bene con me, ed in effetti una quindicina di persone praticano al Kenzan da più di 10 anni. Mi succede così anche nel lavoro.
Stante che le discipline del Budo hanno senso nella misura in cui vengono praticate per tutta la vita, o per lo meno per periodi molto lunghi, ritengo sia utile per gli Istruttori comprendere lo schema offerto da Blanchard, che trova tra l’altro un corrispettivo nel tradizionale detto giapponese: SHU-HA-RI (守破離).Si tratta di una rappresentazione del percorso di apprendimento molto raffinata e allo stesso tempo molto difficile da “interpretare”, ma sulla quale vale la pena di interrogare i Sensei che si abbia la fortuna di incontrare.
Dobbiamo essere consapevoli della grande differenza tra Budo e Business, tra Sensei e Manager. Sono convinto che un eccellente insegnante ed un eccellente manager abbiano caratteristiche diverse, particolarmente nell’etica, nelle buone pratiche e nelle risorse interiori. Allo stesso tempo ho potuto osservare che gli errori dei manager ed i nostri (nell’insegnamento del Budo) si assomiglino drammaticamente!!!
Sia nel contesto professionale che nel contesto del Budo è condizione necessaria porsi alcune questioni: “Come apprendono le persone?” “Come sviluppano le loro capacità?” “Come crescono…?”, ciò che porta a superare l’approccio del bravo tecnico, “Si fa così, come faccio io…”, (che nella versione “modesta” si presenta nella forma: “Si fa così, come fa il mio maestro…”) che caratterizza l’insegnante “Junior”.
Nelle nostre discipline, più ancora che nel Business o nello sport, imporsi agli allievi in modo tetragono risulta particolarmente improduttivo. In questo senso il sistema dei Dan, che impone standard di riferimento, se non “bilanciato” da una solida cultura degli insegnanti, rischia di esasperare la diffusione di cattive pratiche didattiche.
In un recente incontro di formazione sugli ostacoli alla comunicazione interpersonale, un Amministratore Delegato ha affermato: “Il nostro nemico è l’arroganza intellettuale, che si manifesta nella rigidità di chi ritenere di avere capito. Viceversa siamo tutti impegnati in un percorso di crescita…”
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Questo articolo ha una logica sequenziale ed è il naturale seguito allo scritto di Danielle Borra pubblicato il 16 gennaio 2016 dal titolo:
I QUATTRO STADI DELL’APPRENDIMENTO E LE DIFFICOLTÀ DELLA PROGRESSIONE