di Piero Regaldi – 4° Dan Iaido
9 giugno 2016

 

Uno Iaido reale come parte del Budo

Durante la pratica, spesso capita di sentir dire che lo Iaido è parte del Budo. Normalmente lo diamo per scontato, e ci dimentichiamo dell’origine di ciò che stiamo facendo.

Penso sia interessante, per un praticante con qualche anno di esperienza, porsi la seguente domanda:

“La mia pratica, è in linea con il Budo?” 

In fondo il Budo è la Via che, idealmente,  doveva perseguire un Bushi. Abusando di una citazione dell’Hagakure, “la via del Samurai è la morte”.  Nella pratica siamo sempre di fronte ad un avversario immaginario, ma se vogliamo allineare il nostro Iaido al Budo, nella nostra mente egli deve essere reale, capace di ucciderci, di porre fine alla nostra esistenza. Ecco la necessità di uno Iaido altrettanto “reale”, che sia in grado di uccidere e che ci ponga in condizioni di sovrastare il nostro opponente.

Ma come si può rendere reale ciò che non è reale? Come possiamo passare da uno studio puramente tecnico allo sviluppo del cosiddetto “fighting”, del Rihai del Kata?

 

Il piccolo per il grande, il grande per il piccolo

Nello studio del fighting dobbiamo scontrarci con una dura, seppur fortunata, realtà: noi non sappiamo cosa vuol dire trovarsi di fronte ad un nemico armato e che ben incarna lo spirito di sacrificio, della vittoria a costo della vita.

Premesso che la pratica di una disciplina di contatto come il Kendo è di grande aiuto nell’affrontare quella che forse è la più grande sfida dello Iaido, possiamo comunque lavorare per superare questo nostro limite durante la pratica quotidiana.

Una chiave di lettura che trovo utile nello studio è pensare che c’è un motivo per le azioni che compiamo in quelle innumerevoli ripetizioni, forma dopo forma.  Le correzioni tecniche non vengono viste quindi come semplice forzatura del corpo, ma piuttosto come variazione di un movimento all’interno di un contesto, compiuto in funzione del contesto stesso. In ogni istante la posizione che ci viene richiesta, non è una coreografia, ma è il posto migliore dove può trovarsi ogni frammento del nostro corpo secondo chi ha creato e sviluppato il Kata.

Stiamo affrontando un avversario, e siamo guidati da una pratica costante e dall’esperienza dei maestri.

Nostro compito quindi non è dire alla mano che tiene la spada “devi forzarti per tenere il filo della lama nella direzione corretta, dovessi slogarti un polso”, quanto piuttosto capire che stiamo sempre combattendo, e in combattimento essere tesi e avere la mente obnubilata dai pensieri significa sconfitta.

In questo ci vengono in aiuto gli insegnamenti dei Maestri Renè Van Amersfoort, Danielle Borra e Claudio Zanoni,  nel loro paziente e costante ripeterci l’importanza del rilassamento, poichè per tenere il filo della lama nella direzione corretta basta un movimento minimo del polso, mentre tutto il resto è solo forza che dobbiamo imparare a togliere.

Capire il Kata nella sua interezza  significa quindi realizzare la validità di ogni suo piccolo dettaglio, che per essere messo in atto non può dimenticare lo scenario per cui è stato pensato. Realizzare il piccolo per ottenere il grande, comprendere il grande per riuscire nel piccolo.

Infine, questa metodologia ci permette di dare un significato pratico al concetto di “attenzione” durante il kata: non si tratta di un mero studio intensivo del dettaglio tecnico come quello che i principianti devono ricercare, e neanche un’aggressività totale nei nostri movimenti per contrastare un’avversario che ci fa paura, quanto piuttosto dell’attenzione nel manifestare la tecnica come strumento per tenere sotto controllo l’avversario.

Così il nostro Iaido può allinearsi al budo, introducendo il fighting, senza dimenticare che questi non è nient’altro che la naturale espressione del controllo che esercitiamo su ciò che ci circonda, un micromovimento dopo l’altro, un cambio di ritmo dopo l’altro.

 

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