di Chiara Bonacina – 2° Dan Iaido
7 giugno 2016

 

Domenica mattina, per la prima volta dopo aver conseguito l’Hachidan in Jodo, il maestro René ha tenuto una lezione presso il Kiryoku di Torino. Come spesso capita in queste occasioni, noi principianti eravamo in minoranza. Abbiamo allenato i primi cinque kata, analizzandone i punti più critici per la maggioranza, ricevendo poi alcuni preziosi consigli individuali (che come spesso capita, sono più vecchi amici coi quali tocca rimettersi a lavorare che novità)!

Mi è rimasto impresso un particolare segmento di conversazione con il maestro René, nel quale nuovamente si toccava il tasto dell’insegnamento e di come esso sia, e debba essere, diverso in Giappone rispetto a come è in Europa. In antropologia si parla di “embodiment”, “incorporazione”, per definire il modo in cui veniamo condizionati dal nostro contesto culturale e contemporaneamente agiamo su di esso, assecondandolo o resistendovi. Quando ci sentiamo ripetere che, pur dedicando la nostra vita allo studio di un’arte giapponese, non diventeremo mai giapponesi, ci si riferisce anche a questo (e non solo al fatto che la stragrande maggioranza di noi “caucasici” è obbligata a modificare l’esecuzione tradizionale del piccolo chiburi! – Cfr. nota 1). Non siamo stati plasmati dalle forze sociali, storiche ed etiche giapponesi. Possiamo studiare il pensiero giapponese, non possiamo pensare come giapponesi: il tutto, fuor da ogni etnocentrismo. Noi nasciamo nella culla della filosofia, della speculazione. In Giappone non esisteva nemmeno un termine per indicare in modo specifico questa disciplina, fino al 1874 (cfr. nota 2). Si tratta di un paese improntato all’azione e non alla questione, quando si tratta di apprendere. Si “fa” quello che l’esempio suggerisce, sia esso fornito dai maestri a parole o con la sola pratica altrui, che si deve osservare con il rispetto che merita qualcosa di prezioso. Sia che si tratti di koryu, o di Zen Ken Ren Iai, non si “chiede” più di quello che il maestro è disposto a dare, e questo richiede un immenso atto di fiducia, per un europeo: noi non viviamo in un contesto dove il gruppo viene prima del singolo, quindi ci risulta innaturale mettere da parte il nostro ego per sottometterlo alle decisioni di qualcun altro. Noi vogliamo “discutere”. Abbiamo bisogno del confronto, ed è inconcepibile per un allievo giapponese, che non si permetterebbe mai di avere una posizione da discutere con qualcuno di grado più alto. Si assorbe, si metabolizza, si sbaglia cercando di emulare, ci si perfeziona addestrando il corpo e la mente.

Siccome per noi non è possibile mutare in essenza anche con la più solida volontà, il maestro René ha sottolineato la necessità di non limitare la pratica al dojo. Dobbiamo poter parlare, poterci confrontare, aiutarci a crescere vicendevolmente. Non possiamo farlo senza l’aiuto dei maestri e dei compagni: i nostri inchini, alla fine della lezione o all’inizio, non sono né saranno mai solo gesti di vuota forma.

Al centro di tutto rimane sempre la pratica. Trovo che le parole del maestro René, a riguardo, siano state particolarmente ricche della solita umanità che connota i suoi discorsi. Praticare non è semplice. Insieme agli ostacoli che incontriamo quando, iaito alla mano, ci esercitiamo, c’è tutto un corollario di problematiche da tener presente. Innanzitutto, nessuno di noi può dedicarsi solo allo iaido, nella vita. Ci sono la famiglia, il lavoro e tutti i guai che ne derivano, assieme alle soddisfazioni. Può darsi che le nostre occasioni di pratica siano limitate nel tempo, perciò è importante che siano di qualità. Solo la pratica costante può condurre a risultati, siano essi molto piccoli, come le medaglie, più grandi, come gli esami di dan da superare, o molto grandi, come il diventare insegnante. Sebbene si tratti di gioie in diversa percentuale effimere, dobbiamo cogliere il loro valore motivante. “Nobody’s life is a paradise”, come ha detto René sensei. Non dobbiamo scoraggiarci, dobbiamo essere consapevoli che la pratica, anche la più costante, vive un andamento di alti e bassi per mille motivi.

Credo, in conclusione, che comprendere queste verità a proposito di noi stessi possa aiutarci a capire meglio gli altri praticanti, ad apprezzarli e rispettarli, in modo che prima nel dojo e poi nella vita si venga a creare intorno a noi un’atmosfera di positiva costruttività. Forse non diventeremo mai giapponesi, ma questo non ci vieta di migliorare noi stessi, ispirandoci ad un atteggiamento più umile, fiducioso e grato nei confronti dei compagni di pratica e dei maestri.

 

Note:

1 – Ogni riferimento a qualcuno con gambe da giapponese è puramente casuale.

2 – Il primo ad utilizzare il termine “Tetsugaku” fu Nishi Amane nel suo Hyakuichi Shinron, cfr. Interpreting across boundaries: new essays in comparative philosophy, G. Larson, E. Deutsch. E’interessante notare come, in ogni caso, il significato di “filosofia” sia “amore per il sapere”, mentre “tetsu” è più vicino al significato di “consiglio” accompagnato dal “gaku” di “scuola/studio/apprendimento”.

 

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