«L’ultimo articolo che ho pubblicato sulla complessità delle Arti Marziali ha avuto un certo riscontro, a dimostrazione che il tema è di interesse comune.
Ho avuto modo di scambiare alcune idee con Chiara, che ha fatto studi relativi alla filosofia giapponese, e che mi ha offerto un punto di vista più strutturato dovuto alla sua formazione.
Le ho chiesto quindi se voleva provare a scrivere alcune delle cose di cui mi ha parlato. Da qui nascono le note che seguono.»

Claudio Zanoni, 6 dan renshi

Nel suo libro più conosciuto, Il piccolo principe, Antoine de Saint-Exupéry scrive «l’essenziale è invisibile agli occhi». Penso che questa frase possa essere ricondotta anche al budo (vorrei prendere in esame, in particolare, il caso dello iaido) e possa essere spunto per qualche riflessione.
Parte della grande sfida di apprendimento che lo iaido rappresenta consiste nella capacità di rendere visibile qualcosa che di fatto è trasparente. Spesso ci viene detto che dobbiamo materializzare il kasoteki, il che significa prima di tutto riuscire a scorgerlo in prima persona, e quindi renderlo addirittura percepibile all’occhio di chi ci guarda… Non è l’unico esempio cui potrei far riferimento. Prescindendo un attimo dal lato strettamente pratico, quando studiamo iaido dobbiamo costantemente confrontarci con un antico, differente, rigido e distante sistema di valori: il cosiddetto bushido.
Definire il termine “valore” non è un compito facile. Le prime accezioni che vi si associano, nella lingua parlata, sono di stampo troppo economico. Il valore di cui vorrei scrivere oggi non è qualcosa che si possa esprimere con una cifra, né ha il sapore di una dimenticata e favoleggiata virtù romantica. Da un punto di vista filosofico (restringendo il campo soprattutto alle reazioni novecentesche alle opere di Nietzsche) possiamo abbozzare una spiegazione come quella che segue: il valore è un principio dipendente da considerazioni soggettive, che per diventare universale ha bisogno di essere condiviso da una collettività.

Penso che sia una sfida difficile, soprattutto nella società di oggi, riuscire a percepire, vedere e nutrire il “valore”, tuttavia è qualcosa che tutti abbiamo accettato di provare a fare nel momento in cui abbiamo messo piede in dojo. Cosa differenzia due bastoni perpendicolari da una croce? Cosa rende un comune anello diverso da una fede? Cosa vi fa fremere quando per la prima volta stringete le dita intorno alla vostra spada, facendo scaturire in voi la certezza che quella è parte di voi e non è un banale oggetto? In quale momento, esattamente, uno stanzone formato da quattro pareti comunissime diventa un dojo? L’ultima domanda merita una risposta molto articolata, quindi per il momento lasciamola in sospeso. Per tutte le altre, credo che possa valere la medesima risposta: una forte e generata convinzione personale (che poi si rifaccia a sistemi di valori condivisi in contesti esterni, al momento non ci interessa).
Nel momento in cui scegliamo di praticare iaido, raccogliamo il guanto di sfida dell’invisibile. Cercheremo di materializzare un avversario invisibile, taglieremo lungo linee invisibili, ci comporteremo con sensei, senpai e kohai come se fossimo guidati da vincoli invisibili, scorgeremo in qualsiasi palestra comunale qualcosa di sacro e antico: un dojo. Questo nostro rapporto con l’invisibile non è qualcosa da cui si possa prescindere, nel momento in cui decidiamo di essere artisti marziali e non semplicemente atleti.

Come facciamo, alla fin fine, a rendere tangibile l’invisibile, a trasportare sul piano reale qualcosa che non si può percepire con nessuno dei cinque sensi? La risposta è, attribuendogli “valore”.
Una delle virtù che ci è richiesto di mostrare come budoka è la compassione. Provare compassione verso il nostro avversario non è qualcosa che si possa fare se non gli si riconosce alcun valore. Con tutta la precisione tecnica del mondo, un taglio compiuto senza convinzione, senza comprensione di ciò che si sta facendo, senza valore, non avrà mai Fighting e sarà vuoto. Il nostro inchino a shomen, alla spada, al sensei e ai compagni di pratica, ripetuto a inizio e fine lezione, senza un valore da noi attribuito diventa solo un esercizio muscolare neanche tanto utile. In ultimo, un dojo sarà solo una palestra se saremo incapaci di conferirgli il valore che merita.
Poco sopra ho scritto che la questione riguardante il rapporto fra dojo e valore è più complicata delle altre, questo perché il dojo è occupato da una collettività di persone e quindi, nel momento in cui non tutte gli attribuiscono il valore necessario a trasformarlo da palestra in dojo, ci si trova davanti a un problema enorme. Non si può “universalizzare il valore” e questo significa diventare incapaci di parlare la stessa lingua, non potersi riferire a un comune patrimonio simbolico, in breve, non poter crescere insieme e anzi, rischiare di danneggiarsi a vicenda.

Purtroppo le capacità di condizionarsi a vicenda tra i diversi individui sono soggette a leggi estremamente variabili. Nel metamondo del dojo, il carisma dovrebbe essere solo nelle mani del maestro e poi scemare via via da senpai a kohai… Ma non è così, soprattutto in Europa dove tutti ci conferiamo un grande valore personale in quanto individui, in quanto ego. Questo significa che in Europa l’incantesimo che tramuta le palestre in dojo è più complesso da eseguire e i suoi risultati sono più effimeri e fragili. Non vediamo il pericolo insito in molte nostre azioni, ma dovremmo imparare tutti a caricarle di maggior significato, a partire da quando arriviamo e disponiamo in bell’ordine le nostre scarpe prima di accedere al dojo, curandoci di occupare poco spazio, girarle con la punta verso l’esterno e posarle abbastanza vicine a quelle degli altri perché ci sia posto per chi verrà dopo. Entrando in dojo, cerchiamo di percepire che il resto del mondo resta fuori e di far nostre le leggi dello spazio “sacro” in cui stiamo entrando, contribuendo con i nostri gesti a manifestarlo come tale: conteniamo il rumore, prendiamocene cura pulendo i pavimenti con attenzione (ricordandoci che queste mansioni “umili” fanno parte dello stesso verbo “servire” che caratterizza la parola samurai), disponiamo le nostre cose in modo che ci sia spazio per tutti e che i rischi per la sicurezza siano evitati. Salutiamo con serenità e rispetto i praticanti che arrivano, non solo perché magari sono persone amiche, ma perché sono componenti insostituibili per la nostra crescita e maturazione lungo la Via. Facciamo del nostro meglio per allinearci con prontezza per il saluto, rivestiamo di significato ogni gesto, sapendo che compiamo gli stessi movimenti che centinaia di persone hanno compiuto prima di noi e che altrettante stanno emulando nel mondo. Pratichiamo con attenzione verso la nostra pratica e verso quella di tutti gli altri, perché tutto quello che il sensei condivide è vitale, tutto ciò che viene spiegato ai senpai un giorno ci servirà e quello che viene insegnato ai kohai rafforzerà le fondamenta sulle quali ci siamo impegnati a costruire il nostro keiko.

Rivestire di “valore” ogni momento è sì impegnativo, ma anche molto appagante. Nel momento in cui riusciremo in qualcosa sarà un risultato dal significato enorme, e se coloro che ci circondano avranno avuto attenzione per noi, anche loro potranno gioirne e partecipare al successo.
Non possiamo permetterci di non farlo. “Creare” e custodire il dojo è una responsabilità di tutti noi, nessuno escluso, e dobbiamo essere consapevoli delle conseguenze di ogni comportamento che devia dal conferire valore alla pratica. Siamo tutti responsabili di ciò che gli altri in generale e i kohai in particolare possono trarre dalle nostre azioni. Maggiore è il nostro grado, più potente sarà la portata dell’esempio che possiamo fornire con la nostra serietà, attenzione, concentrazione priva di cedimenti, rispetto assoluto per il prossimo e atteggiamento costruttivo e incoraggiante. In conclusione, questo potere che noi europei così facilmente concediamo a noi stessi come insieme di ego, usiamolo a nostro vantaggio per modificare positivamente il contesto in cui ci troviamo. Non sentiamoci esclusi dalla responsabilità di dare l’esempio migliore, senza cedere neanche per un momento: se ci impegneremo senza risparmiarci in questo, ci sentiremo uniti nello sforzo e sicuramente raggiungeremo il risultato sperato. Impegnamoci insieme per trasformare la palestra in dojo: un buon lavoro di squadra in questo senso ci permetterà anche più facilmente di vedere l’invisibile in frangenti dove siamo soli con noi stessi.

Chiara Bonacina, 3 dan

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© le illustrazioni utilizzate in questo articolo sono opere originali di Saint-Exupéry e di altri artisti ispirati dai suoi acquerelli naïf.

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