Per poter parlare, pur superficialmente, del Buddhismo in Giappone occorrerebbe ripercorrere almeno gli ultimi mille anni di storia giapponese, e questo va ben oltre alle finalità di questa rubrica e alle possibilità di chi scrive. Tuttavia con questo contributo vorrei semplicemente presentare alcuni punti importanti per comprendere meglio la diffusione e lo sviluppo di questo fenomeno religioso nel contesto giapponese, per poi presentare brevemente i suoi esiti dal periodo Meiji fino ai giorni nostri, immaginando che questo possa forse essere di maggiore interesse per chi oggi legge queste pagine.
Il Buddhismo viene introdotto in Giappone dal continente nel VI secolo tramite i contatti con le culture cinese e coreana. Le cronache che trattano l’argomento della penetrazione buddhista nell’arcipelago giapponese, come la Nihon Shoki, sono state composte più di duecento anni dopo i fatti e presentano caratteri piuttosto idealizzati sulle effettive dinamiche di inculturazione, mostrando una ricezione non problematica da parte della famiglia reale allora dominante.
Oggi è ampiamente riconosciuto che i primi resoconti sull’arrivo del Buddhismo in Giappone includono reinterpretazioni sostanziali e creative, e persino vere e proprie falsificazioni. I gruppi di immigrati residenti che provenivano dalla penisola coreana e famiglie nobiliari influenti come i Soga dovevano quasi certamente essere più decisivi nella promulgazione del Buddhismo rispetto alla della casa reale.
Nei due secoli successivi questi attori continuarono a svolgere un ruolo centrale nella stabilizzazione e nella progressiva accettazione delle dottrine buddhiste su suolo nipponico. In particolare, è nel VIII secolo che il fenomeno comincia effettivamente ad assumere le caratteristiche di una religione di massa, e viene al contempo strettamente regolamentato dal governo, specie per quanto riguarda le regole della vita monastica maschile e femminile. Inoltre proprio nella prima metà dell’VIII secolo l’imperatore Shōmu promuove la costruzione di una rete ufficiale di templi buddhisti, incrementando la rilevanza anche politica del suo clero.
Nel periodo Heian, IX-XII secolo, si assiste ad una progressiva influenza delle dottrine continentali di carattere confuciano sul Buddhismo giapponese, che ne determina anche una forte spinta patriarcale, di fatto portando all’eliminazione delle componenti monastiche femminili e legando quindi le cariche rappresentative del Buddhismo al solo elemento maschile. A questo periodo risale anche la prima reale codificazione dottrinale interna, con l’emersione di scuole di pensiero dai connotati esoterici che troveranno grande fortuna fino ai giorni nostri, come le tradizioni Tendai e Shingon, e, dal X secolo in poi, il cosiddetto Buddhismo della Terra Pura si diffuse a tutti i livelli della società, promuovendo la possibilità della salvezza personale dalle dimensioni infernali e dal ciclo delle rinascite mediante la pura recitazione di peculiari mantra. In particolare nel periodo Kamakura (1185-1333) si ebbero le maggiori innovazioni, attraverso diverse forme di risveglio e rinnovamento dottrinale, che portarono alla nascita di alcune delle tradizioni più importanti sino ai giorni nostri. Specialmente all’interno della scuola esoterica Tendai sorsero infatti diverse personalità innovative, come quelle di Eisai e di Dōgen, fondatori delle scuole Zen Rinzai e Soto. Occorre poi menzionare almeno Hōnen (1133-1212), Shinran (1173-1263) e Nichiren (1222-1282), oggi venerati come i fondatori delle scuole della Terra Pura, della Vera Terra Pura e del Loto, i quali sostenevano che le loro particolari versioni del Buddhismo fossero le sole veramente efficaci. Questa retorica esclusivista era naturalmente giudicata offensiva per l’establishment e per gli altri gruppi buddhisti, per cui non sorprende che tutti e tre i maestri esclusivisti abbiano subito persecuzioni da parte delle istituzioni religiose stabilite e del governo. In particolare secondo queste dottrine, la recita sincera di formule come “Namu Amida Butsu” o “Namu Yoho Renge Kyo” avrebbero assicurato la salvezza delle persone senza ulteriori pratiche ascetiche o rituali complessi tipici di altre correnti.
Anche se il governo militare di Kamakura unificò il paese e vinse le battaglie contro le due invasioni mongole del 1274 e del 1281, nel secolo successivo iniziò il declino e il crollo. Ancora una volta il Giappone si trovò nel caos e conobbe grandi disordini politici e sociali con numerose guerre civili. La gente comune era perplessa e a disagio. Come naturale conseguenza, la gente fu costretta a cercare conforto affidandosi alla religione. Il culto di Avalokiteshvara (Kannon), il Bodhisattva della Compassione Infinita, fiorì tra la gente e in questo periodo si rafforzò anche dottrinalmente il legame tra i culti tradizionali e il Buddhismo. Quando il nuovo governo militare fu istituito da Ashikaga Takauji nel 1336, il Giappone fu nuovamente unificato. Vennero costruiti altri templi e monasteri grazie al patrocinio del governo o alle donazioni del popolo. Anche la cultura buddhista ebbe un forte sviluppo in questo periodo. L’introduzione della pittura, della calligrafia, della cerimonia del tè, della composizione floreale e del giardinaggio da parte dei monaci cinesi influenzò notevolmente la formazione di raffinatezze nella cultura giapponese che hanno continuato a svilupparsi fino ai giorni nostri.
Tuttavia, nonostante l’efflorescenza culturale del periodo Muromachi, verso la fine del XV secolo secolo, le condizioni politiche si deteriorarono notevolmente. L’epica guerra di Ōnin (1467-1477) segnò il disfacimento del dominio Ashikaga e alterò radicalmente la religione e la società giapponese. Gli sconvolgimenti e le distruzioni diffuse destabilizzarono gravemente i vecchi modelli religiosi e fece spazio alla fioritura di nuovi movimenti, facilitando lo sviluppo di nuove reti e strutture sociali. In questo periodo, il movimento della Vera Terra Pura si impose tra le altre correnti buddhiste.
Quando Oda Nobunaga rovesciò il governo militare di Ashikaga nel 1573, invece, soppresse attivamente tutte le istituzioni buddhiste perché temeva l’aumento del potere dei principali templi e monasteri che si erano schierati con i suoi nemici. Non a caso favorì il nuovo culto straniero del Cristianesimo, naturalmente solo per ragioni puramente politiche. Dopo la morte di Nobunaga, anche Toyotomi Hideyoshi soppresse le istituzioni buddhiste con l’idea di ricondurre la sfera che potremmo definire religiosa completamente sotto il dominio secolare. Con la resa delle istituzioni buddiste al potere secolare di Nobunaga e Hideyoshi, anche l’arte buddista cadde gradualmente in disuso e fu sostituita da modelli secolari.
Una nuova fase si ebbe quando Tokugawa Ieyasu istituì lo shogunato nel 1603 a Edo (l’attuale Tokyo), vietando ai giapponesi di lasciare il paese e agli stranieri di entrare, con poche eccezioni. Durante questa fase di chiusura il Buddhismo perse progressivamente di importanza, e anche se i templi e i monasteri distrutti da Nobunaga e Hideyoshi furono restaurati da Ieyasu, lo furono come edifici relativamente modesti e non fortificati.. Queste misure furono intraprese sia per indebolire e controllare il potere delle istituzioni buddiste, ormai del tutto dipendenti dal potere secolare, e allo stesso tempo sopprimere i restanti focolai cristiani. Durante questo periodo, fortemente influenzato dal confucianesimo, tutti i templi divennero uffici anagrafici in cui nascite, matrimoni, morti e funerali di una data zona dovevano essere registrati presso il sacerdote responsabile ed erano quindi di fatto ridotti a istituzioni burocratiche atte al controllo e al disciplinamento della popolazione.
Sarà la seconda metà del XIX secolo, sotto la crescente pressione da parte delle potenze occidentali in vista dell’apertura del Giappone agli scambi a determinare una nuova fondamentale fase della vita religiosa giapponese, a cui anche il Buddhismo non si sottrasse.
L’Epoca Meiji, con la sua modernizzazione a tappe forzate non poté che impattare notevolmente sul rapporto del governo e della società con i culti tradizionali, e quindi anche con la presenza buddhista. Gli ideologi nazionalisti avevano un posto di rilievo nel primo governo Meiji e hanno contribuito a dare il via a una serie di politiche che portarono a cambiamenti religiosi sconvolgenti negli anni ’60 e ’70 del XIX secolo. In primo luogo, il nuovo governo sottrasse ai templi buddhisti le funzioni burocratiche del periodo Edo, ponendo fine al sistema alla connivenza tra governo e clero buddhista. Questo ridimensionamento fu figlio della nuova politica nazionalista che intendeva riproporre lo Shinto come nucleo identitario della nuova potenza imperiale. Infine, il governo ordinò che il Buddhismo e lo Shintō si escludessero a vicenda, relegando il Buddhismo alla sfera del religioso e lo Shintō alla morale civica. Nel 1868 il governo emise editti noti come “ordini sulla separazione di kami e Buddha”, che di fatto ponevano fine a quel sincretismo tipicamente giapponese ormai consolidato da secoli. In molti casi, l’applicazione di queste politiche fu profondamente traumatica per le popolazioni rurali. Le divinità con identità ambivalenti dovevano essere trasformate in Buddha o in kami, perché non potevano più essere entrambe. I templi buddhisti e i santuari Shintō dovevano essere fisicamente separati. In questo periodo i Buddhisti ordinati non potevano più amministrare o servire nei santuari Shintō, e le immagini, i testi e gli strumenti rituali buddhisti dovevano essere rimossi. Sulla scia di altri editti, sia i templi che i santuari divennero soggetti a riforme fondiarie ed espropri anche molto pesanti.
Come conseguenza degli editti di separazione e delle politiche correlate, molti templi e santuari più piccoli, soprattutto quelli che non avevano sacerdoti residenti, furono accorpati ad altre istituzioni o semplicemente chiusi per sempre.
La laicizzazione era dilagante e i templi venivano rasi al suolo, soprattutto nelle aree in cui il sentimento anti-buddista era alto. In tutto il Giappone, molte icone e strumenti rituali furono distrutti, mentre altri furono rubati o venduti. Questi iniziarono ad entrare così nel mercato dell’antiquariato e poi dell’arte, uno sviluppo che ha contributo all’inclusione della cultura materiale buddista nell’attuale mercato dell’arte.
Durante il periodo in cui venivano applicati gli editti di separazione, il governo ha approvato anche leggi sul comportamento monastico e sull’osservanza delle regole. In particolare, i chierici erano ora liberi di mangiare carne, di sposarsi e di farsi crescere i capelli; era inoltre permesso loro di indossare abiti normali e laici quando non erano impegnati in rituali o altre attività specializzate. Queste norme, scandalose per molti al tempo, sono oggi largamente diffuse in Giappone, così come il matrimonio clericale per gli uomini ordinati. Oggi, poi, molti templi funzionano in parte come aziende familiari, in cui la posizione di sacerdote (o capo sacerdote) viene tramandata da padre a figlio.
Durante i primi anni del periodo Meiji, molte denominazioni buddhiste dovettero adattare anche il loro stile di insegnamento a modelli occidentali, per cui si fondarono dei collegi o si convertirono i vecchi seminari in nuove università su modello europeo. Queste istituzioni hanno avuto un grande successo e continuano a fiorire oggi, offrendo programmi di laurea e di specializzazione, oltre a una formazione specializzata per i chierici. La presenza di queste istituzioni ha consentito anche una notevole fioritura degli studi sul Buddhismo in tempi più recenti, esercitando un ruolo culturale oggi riconosciuto a livello internazionale.
Nonostante negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso, come ogni altra sfera della cultura giapponese, anche il pensiero e la pratica buddhisti fossero profondamente influenzati dalle retoriche fasciste, la fine della Seconda Guerra Mondiale ha portato un cambiamento epocale. La libertà di religione fu sancita nella Costituzione del dopoguerra, e la pace divenne un valore cardinale per la maggior parte delle organizzazioni religiose. Nel Secondo Dopoguerra la società giapponese ha separato nettamente la vita dello stato dalle attività religiose, e nonostante le pratiche buddhiste convivano spesso accanto a rituali di origine Shintō o anche cristiani, mantengono per una buona parte della popolazione ancora una loro importanza, specialmente nel settore funebre.
Il monachesimo buddhista, seppure non sia paragonabile alle sue espressioni più antiche, sopravvive in Giappone come un’alternativa alla vita contemporanea standard, sia per le donne che per gli uomini.
Inoltre, nuovi movimenti religiosi che attingono alle credenze e alle pratiche buddiste continuano ad emergere. Nel periodo postbellico, in particolare, sono proliferati nuovi gruppi e correnti settarie (shinshinshūkyō). Questi movimenti hanno hanno guadagnato terreno tra i diseredati e le persone turbate dai cambiamenti socioeconomici, e sono spesso caratterizzati da un’organizzazione congregazionalista, da una partecipazione laica e da fondatori carismatici, dottrinalmente eclettici. Queste nuove correnti buddhiste di successo includono i movimenti laici Reiyūkai e Sōka Gakkai, entrambi nati dalla Scuola del Loto. Fondata nel 1930, la Sōka Gakkai è probabilmente il più famoso dei nuovi movimenti religiosi giapponesi, anche a livello internazionale. Sebbene rimanga controverso in Giappone a causa della sua reputazione di proselitismo pesante e il coinvolgimento nella politica, ha avuto un enorme successo missionario in Occidente sotto l’egida della Sōka Gakkai International (SGI). Insieme alla conversione, all’emigrazione e alla globalizzazione, l’innovazione e l’adattabilità hanno anche alimentato la crescente presenza di forme di Buddhismo storicamente giapponesi in tutto il mondo. Le comunità etniche giapponesi fioriscono alle Hawaii, in Brasile e in Nord America. America, e correnti buddhiste di origine giapponese hanno messo radici in tutte queste regioni. Lo Zen e, in misura minore, la Terra Pura e i nuovi movimenti religiosi, hanno raccolto molti convertiti anche nei paesi occidentali. In un processo di adattamento che ben si adatta alle dinamiche tipiche delle religioni su suolo nipponico.
Riferimenti bibliografici:
– Blair H., Buddhism in Japanese History, in M. Poceski (ed), The Wiley Blackwell Companion to East and Inner Asian Buddhism, John Wiley & Sons, Hoboken (NJ) 2014, 84-103.
– Matsunami K. (ed), A Guide to Japanese Buddhism, Japan Buddhist Federation, Tokyo 2004, 1-21.
– Reader I., Religion in Contemporary Japan, Macmillan, London 1991, 77-106.