Questo articolo inaugura una nuova rubrica sul blog, dedicato all’approfondimento, certamente divulgativo e accessibile a non addetti ai lavori, del tema delle “religioni” giapponesi. In questo articolo ci tengo però a sottolineare come possa essere ambiguo fare ricorso ad una categoria così complessa come “religione” per descrivere un mondo culturale profondamente differente da quello in cui questa categoria è nata e si è sviluppata nel corso dei secoli. Ci tengo poi a sottolineare come questa serie di interventi desideri collocarsi su un piano storico-religioso e descrittivo, e sia privo di giudizi di valore rispetto alle differenti realtà prese in considerazione. Perché questo sia possibile è però necessario problematizzare almeno la parola che utilizzeremo di più, e che più di altre, tra le altre, rischia di generare confusione in chi legge.

La parola “religione”, che si incontra in tutte le principali lingue occidentali, deriva etimologicamente dal latino “religio”. Il termine era già problematico ai tempi di Cicerone, dove indicava, nel quadro del contesto culturale romano, in primo luogo la scrupolosità nell’attenersi a norme rituali tradizionali. Esso subisce un notevole arricchimento semantico in età imperiale, per influsso di alcuni influenti autori cristiani, come Lattanzio e Agostino, finendo ad indicare la cura della peculiare relazione tra l’essere umano e Dio, pur con diverse sfumature. Tra antichità e medioevo, il termine comincia a connotarsi in chiave identitaria, andando ad indicare una religio christiana opposta alla religio romana tradizionale, per finire ad assumere, nel corso del medioevo e della prima età moderna, un significato equivalente a quello di “cristianesimo”. È proprio questa caratterizzazione identitaria ad aver visto il sorgere dello studio storico-critico delle religioni, dal XVIII secolo in poi, sotto l’impulso del razionalismo illuminista. Negli studi occidentali moderni sui fenomeni religiosi di altre culture di interesse etnologico, si tendeva però ad utilizzare il termine “religione” per classificare fenomeni culturalmente molto distanti dalle forme di cristianesimo che si sono imposte in Europa lungo i secoli. In particolare, anche se frequentemente in modo inconsapevole, e spesso per contrasto, si finiva per proiettare le proprie categorie culturali su contesti assai diversi da proprio, andando di volta in volta a costruire identità alternative rispetto a quella dominante, di matrice nordeuropea. Oggi le scienze antropologiche e storico-religiose sono consapevoli della problematicità di questi usi, anche se il termine “religione” resta un utile strumento euristico, pur con i dovuti caveat.

Certo, già il fatto che un termine sopravviva solo come calco dalla sua lingua di origine (il latino), è indicativo della complessità dei fenomeni che possono essere descritti mediante il suo uso. Destino culturalmente simile ha avuto, del resto, anche la parola greca “philosophía”.

Tuttavia, la complessità delle espressioni religiose giapponesi rende problematico l’uso del termine “religione” per descrivere le dinamiche culturali alla base dei culti diffusi in Giappone.

La parola giapponese “shūkyō”, tradotta spesso come “religione”, possiede infatti una gamma di significati non esattamente sovrapponibile rispetto a ciò che si intende in occidente con quest’ultimo termine. “shūkyō”, una parola composta da due ideogrammi, shū, che significa setta o denominazione, e kyō, insegnamento o dottrina, è diventata prominente nel XIX secolo a seguito degli incontri giapponesi con l’Occidente e in particolare con i missionari cristiani, per indicare un concetto e una visione della religione comune nella teologia cristiana, ma in quel momento non presente in Giappone, cioè come sistema teologico ben definito e delimitato da specifiche confessioni di fede, di carattere normativo.

Il termine “shūkyō”, almeno in origine, implica dunque già una separazione tra ciò che è religioso da altri aspetti della società e della cultura, e contiene implicazioni di credo e impegno in un ordine o movimento – qualcosa che non è stato tradizionalmente un elemento costitutivo del comportamento religioso giapponese e che tende ad escludere molti dei fenomeni coinvolti nella cultura del Sol Levante. Quando legato a questioni di credo, evoca idee di un impegno stretto verso un insegnamento particolare ad esclusione e negazione implicita di altri – qualcosa che va contro la natura generalmente complementare e sincretistica della tradizione religiosa giapponese. In “shūkyō” e quindi nell’idea di ‘religione’ c’è una sfumatura a qualcosa di impegnativo, restrittivo e persino invadente, e, in definitiva settario.

Questo è una delle fondamentali motivazioni alla base della reticenza delle persone comuni giapponesi nel definirsi religiose, pur praticando in realtà moltissime attività che un occidentale non esiterebbe a definire tali.

Inoltre, il tema dell’appartenenza ad uno specifico gruppo religioso è ulteriormente complicata dall’immagine generale che le religioni organizzate hanno acquisito nel corso del XX secolo. Il buddismo, in particolare a causa delle sue associazioni con il processo di morte, ha spesso un’immagine piuttosto funeraria e triste, mentre le nuove religioni sono state spesso ritratte dai media come manipolative e piene
di superstizione. Anche lo Shintoismo ha avuto la sua immagine compromessa a causa delle sue strette associazioni con il fascismo nazionalistico del periodo che ha portato alla sconfitta della guerra del 1945, mentre il cristianesimo, nella sua visione universalistica, tende ad essere piuttosto antitetico ai sentimenti di identità giapponese. I sociologi della religione hanno a lungo riconosciuto questo modello generale di rifiuto, negazione di appartenenze specifiche e riluttanza ad affermare l’impegno verso sistemi dottrinali definiti, che tuttavia non impedisce alle persone giapponesi di partecipare a moltissime azioni di azioni direttamente derivate da sistemi religiosi sopra descritti.

Da quanto emerge, i giapponesi amano gli eventi e le attività religiose ma per contro non amano la religione organizzata e orientata ad una specifica dottrina. Pertanto, si può affermare che la caratteristica principale della religiosità in Giappone è il suo focus sull’azione, sulla consuetudine e sull’etichetta.

In questo, molte forme di pratiche (e credenze) che sarebbero considerate marcatamente religiose agli occhi dell’occidentale medio non rientrano nella definizione giapponese corrente di “religione”. Ad esempio, pratiche come la preghiera per i defunti durante il festival di O-bon, pur essendo di chiara origine buddhista, non è considerata come parte di un sistema religioso, ma viene percepita come facente parte della vita quotidiana, come espressione culturale tra le altre. Lo stesso si potrebbe dire di alcuni aspetti delle arti marziali, che pure conservano in esse un innegabile influsso religioso, come nel reiho dello iaido.

Per concludere, occorre fare molta attenzione nel descrivere i fenomeni religiosi giapponesi, e tenere presente che non tutto ciò che per un occidentale può essere ascritto con sicurezza alla sfera del religioso o del sacro può essere percepito nello stesso modo in Giappone. Nei prossimi articoli, cercheremo di approfondire le principali tradizioni religiose presenti su suolo nipponico, delineandone brevemente la storia e l’attuale percezione nella cultura giapponese contemporanea.

Bibliografia:
– Horii M., The Category of Religion in Contemporary Japan. Shūkyō & Temple Buddhism, Springer, Cham 2018, pp. 23-51.
– Kobbert M., s.v. Religio, in RE, Bd. IA,1, 565-575.
– Reader I., Religion in Contemporary Japan, MacMillan, Basingstock 1991, pp. 12-20.

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