«C’è un detto: “segna il confine tra prima e dopo”. Ripercorrere con la mente i momenti precedenti, permettere a tracce della mente del presente di permanere: in entrambi i casi ciò è male.» 

Takuan Sōhō, Fudōchishinmyōroku XII, in W. S. Wilson (a cura di), Takuan Sōhō. Lo Zen e l’arte della spada, traduzione italiana a cura di P. Gonnella, Mondadori, Milano 2001, p. 53. [ed. or: The Unfettered Mind, Kodansha International Ltd., Tokyo 1986.]

La pratica delle arti marziali ha a che vedere con il riconoscimento dei propri errori. Il progresso che ciascuno di noi può ottenere nasce da una continua messa in discussione di ciò che siamo portati a realizzare intuitivamente, dopo l’osservazione di un modello ritenuto corretto. La struttura dell’insegnamento dello iaidō, in particolare, si basa su un rapporto di copia o approssimazione di movimenti fisici e posture mentali, via via illustrati dagli insegnanti e appresi dagli allievi attraverso una pratica attiva degli stessi.  

Chiunque abbia appreso la struttura di base di un qualunque kata o di un kihon deve necessariamente essere passato attraverso questo tipo di processo e aver corretto degli errori, davanti ad un insegnamento via via più esigente. Tutto sommato, nessuno si scandalizza per questo. E tuttavia, ci sono errori ed errori. Per esperienza diretta so che non è la stessa cosa commettere un errore, anche molto grave, in un kata durante una serie di ripetizioni compiute all’interno del nostro allenamento settimanale al dojo, e commetterne uno, anche apparentemente veniale, durante un esame importante o una competizione ai campionati europei.  

Il peso emotivo che attribuiamo agli errori che commettiamo non è una misura astratta, e non dipende direttamente dall’entità dell’errore in sé.  

Del resto, una pratica matura si sottopone necessariamente ad un esame esterno e per la struttura intima della pratica del budo, si ha una sola possibilità per fare bene o male. Ichi-go ichi-e, come si dice in Giappone. 

Laddove noi combattessimo realmente un duello di spada, l’errore commesso in quel momento sarebbe decisivo per determinare la nostra morte, e non ci sarebbe più alcuna seconda possibilità. E tuttavia, dal momento che, fortunatamente, non dobbiamo impegnarci in duelli mortali, si palesa un altro rischio: quello della permanenza nello stato emotivo che abbiamo provato nel fallire in un momento decisivo. Per quanto possa essere paradossale, tale permanenza, la stessa di cui parla Takuan Sōhō in questo brano, può determinare il fallimento totale di un percorso nel budo. La nostra morte alla via.  

Rimuginare sui nostri errori perpetrando uno stato giudicante su noi stessi, o peggio ancora su altre cause su cui scaricare il nostro fallimento, non ci farà sembrare più saggi, né tanto meno più umili. Ci bloccherà, invece, impedendoci di progredire nel percorso di pratica, e rischierà di influenzare negativamente anche la pratica dei nostri compagni.  

Credo che in molti possano aver provato questo stato d’animo almeno una volta nella vita, e non solo nell’ambito marziale.  

“Segnare il confine tra prima e dopo” ha diverse implicazioni sul nostro modo di praticare. In primo luogo, dovrebbe farci riflettere sul carico emotivo che attribuiamo ad alcune nostre esperienze, e, per contro, sulla superficialità con cui spesso affrontiamo i nostri difetti ed errori nella pratica settimanale in dojo. In secondo luogo, ci dovrebbe ricordare il fatto che la struttura stessa dello iaidō ha a che vedere con una dinamica di errore-riconoscimento-correzione. Esiste una differenza radicale tra il concetto di perdono e quello di indulgenza. Per questo motivo non è possibile fare dei nostri errori un’abitudine e neppure una gabbia, ma occorre nutrirsene per avanzare giorno per giorno, fino a che avremo la forza fisica e spirituale per portare avanti questo percorso. 

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