Quello cui faremo riferimento in questo breve articolo come “Confucianesimo” è in realtà un fenomeno plurale e complesso, che però ha come punto in comune la ricezione degli scritti e del pensiero del pensatore cinese Kǒng Fūzǐ (Confucio), attivo in Cina tra VI e V a.C. Laddove il termine “Confucianesimo” è di conio occidentale, e deriva dall’incontro dei missionari gesuiti europei in Cina nel XVII secolo, in Giappone ci si riferiva classicamente a questo tipo di pensiero con diverse espressioni come Jugaku (l’apprendimento degli studiosi), Jukyō (gli insegnamenti degli studiosi), Seigaku (l’apprendimento dei saggi), Seirigaku (l’apprendimento della natura umana e dei principi), Rigaku (l’apprendimento relativo ai principi) e Shingaku (l’apprendimento della mente). Tuttavia, già in epoca medievale si riconosceva in Giappone la matrice comune di questi movimenti culturali negli scritti classici attribuiti a Confucio. In questo articolo cerchiamo di presentare in modo assai conciso e riassuntivo le principali linee di sviluppo del confucianesimo in Giappone, senza avere alcuna pretesa di esaustività, ma tentando di fornire una visione generale e accessibile al lettore non specialista di lingua italiana. 

Tutto inizia con l’espansione territoriale e culturale della dinastia cinese Han (206 a.C.-220 d.C.) nella penisola coreana, con cui si crearono le premesse per l’introduzione dei testi e degli insegnamenti confuciani anche in Giappone attraverso la mediazione del regno coreano di Paekche a metà del VI secolo, insieme al buddismo e ad altri elementi essenziali della civiltà cinese. Va notato che nonostante un antico testo giapponese, i Registri delle questioni antiche (Kojiki, 712), riferisca che già in precedenza Keun Ch’ogo, il sovrano del regno coreano di Paekche, aveva inviato un maestro di nome Wani, insieme a una copia degli Analetti e a un altro testo cinese, il Classico dei Mille Caratteri (in giapponese: Senjimon), al sovrano di Yamato intorno al 400 d.C., questa tradizione ha carattere fortemente leggendario, e non andrebbe considerata da un punto di vista dell’affidabilità storica. Ad ogni modo, dal VI secolo è innegabile una presenza confuciana nel pensiero giapponese.  

Non è banale ricordare alcuni dei campi in cui l’influeza confuciana ha avuto maggiore rilievo. Un primo contributo confuciano alla cultura giapponese riguarda la concezione del tempo storico. In particolare, fu sulla scia dell’introduzione del buddhismo che la corte imperiale giapponese arrivò a utilizzare i nengō, o “nomi degli anni”, come mezzo per contare gli anni del regno di un imperatore. Questo sistema era nato in Cina, durante la dinastia Han, quando gli imperatori davano un nome all’arco del loro regno per riflettere il programma e i valori che cercavano di incarnare. Mentre nel 1912, con la fondazione della repubblica cinese, questa pratica è terminata in Cina, è seguita ancora oggi come metodo standard di conteggio degli anni in Giappone. Poiché praticamente tutti i nengō utilizzati nella storia giapponese come nomi per il tempo annuale derivano da testi confuciani, non c’è dubbio che la concezione giapponese del tempo calendariale sia stata formata essenzialmente in base alla filosofia confuciana. Lo stesso si può dire dei nomi associati agli imperatori. Nonostante la credenza in merito alla loro discendenza da divinità Shintō che risale a Izanagi e Izanami, progenitori di Amaterasu e Susanoo, gli imperatori giapponesi, sia mitici che storici, hanno assunto nomi dal carattere decisamente confuciano. Questo aspetto non banale parla dunque dell’inculturazione della tradizione Shintō a partire dalla tradizione confuciana, di cui abbiamo già parlato in un precedente articolo.  

In un certo senso, anche le antiche concezioni giapponesi dello spazio riflettevano sfumature decisamente confuciane. Yamato e Nippon erano termini usati per riferirsi al regno imperiale che in Occidente è stato conosciuto come Giappone, ma quando gli antichi giapponesi parlavano in termini più universali, riferendosi non solo al loro regno socio-politico ma al mondo più vasto, lo facevano spesso usando l’espressione tenka, o “tutto-sotto-il-cielo”. Questo termine compare per la prima volta nella letteratura classica confuciana, in particolare nel Libro della Storia e nel Libro dei Mutamenti. Anche in merito alla cosmologia, gli antichi giapponesi spiegavano le loro origini, in parte, in termini decisamente confuciani. Sia i Registri degli Antichi che le Cronache del Giappone si aprono con narrazioni cosmologiche che spiegano le origini del mondo, del Giappone e del popolo giapponese. Un ingrediente degno di nota nelle narrazioni è quello dei “cinque processi”: legno, fuoco, terra, metallo e acqua. Attraverso la combinazione di questi elementi in via processuale, si tentava di comprendere la struttura della realtà e dei suoi mutamenti, a partire da una visione tipicamente riconducibile al confucianesimo Han. 

Dal punto di vista letterario, forse lo scritto di influenza confuciana più evidente del Giappone antico è la cosiddetta “Costituzione in diciassette articoli” (Jūshichijō kenpō) attribuita al principe Shōtoku (573-621). Sebbene questo documento non fosse tanto una costituzione nel senso di un progetto di governo e di organizzazione politica quanto un insieme di massime destinate a servire da standard per la società politica, è chiaramente influenzato dal confucianesimo in ogni sua parte. L’articolo di apertura afferma: “L’armonia deve essere apprezzata”, alludendo a dottrine contenute negli Analetti di Confucio. Nella maggior parte dei restanti articoli, la Costituzione promuove una difesa laica dei principi sociali confuciani, come l’importanza della gerarchia naturale che informa il regno politico e le virtù politiche come la lealtà, l’obbedienza, il decoro rituale, l’imparzialità, la diligenza, l’affidabilità, la moderazione e la mentalità pubblica. L’affermazione di questi concetti riflette la misura in cui anche in una fase iniziale dello sviluppo politico le nozioni confuciane erano privilegiate al centro del discorso politico ufficiale. Anche la nomenclatura politica utilizzata nell’antico Giappone, compreso il termine tennō (imperatore) derivava, almeno in parte, da una serie di testi confuciani. In larga misura, Confucio e i confuciani successivi erano insegnanti che enfatizzavano l’importanza dell’apprendimento sia come fonte di piacere che come mezzo per l’auto coltivazione e persino per la perfezione sotto forma di saggezza. Dato l’orientamento politico del confucianesimo, non deve sorprendere che lo studio e l’apprendimento siano stati considerati i prerequisiti per governare correttamente il regno e portare la pace nel mondo. Un’altra istituzione degna di nota di chiara derivazione confuciana fu la daigakuryō, o accademia imperiale, creata per l’educazione dei principi imperiali e degli aristocratici che probabilmente sarebbero stati coinvolti nel servizio governativo. L’antico Giappone non seguì mai la pratica cinese di selezionare i burocrati tramite esami di servizio civile basati sull’apprendimento confuciano e sulle sue applicazioni pratiche. Tuttavia, patrocinando il daigakuryō e una serie di scuole provinciali modellate sul modello articolato nel Libro dei Riti confuciano, il Giappone antico istituì un sistema educativo d’élite incentrato in gran parte sullo studio dei testi confuciani e dei valori socio-politici in essi avanzati. 

In epoca medievale, dopo la Guerra di Genpei (1180-1185), a Kamakura si instaurò un regime di samurai. Dal punto di vista religioso e filosofico, il regime di Kamakura promosse lo sviluppo del Buddhismo, e in particolare quello della setta Zen Rinzai, a discapito del pensiero confuciano. In particolare, l’etica “diplomatica” ed elitaria di derivazione confuciana mal si conciliavano all’etica guerriera e al costante periodo bellico di epoca medievale. Gli sconvolgimenti del periodo medievale videro quindi una relativa eclissi del confucianesimo che venne avvolto, nel migliore dei casi, da un nuovo ordine culturale sincretico, tipicamente dominato da una forma di Buddhismo o da un’altra, in risposta alle sofferenze sociali e personali dell’epoca. 

Il Confucianesimo e il Buddhismo, come abbiamo potuto osservare in un precedente articolo, sono sempre stati strettamente correlati nel corso della storia giapponese. Per secoli, gli insegnamenti dei filosofi Song rimasero oggetto di studio per lo più all’interno dei monasteri Zen, senza raggiungere un’esistenza indipendente o un’integrità filosofica al di fuori dello Zen. Questo non dovrebbe sorprendere, dato che filosofi neoconfuciani come Zhu Xi avevano sviluppato il loro pensiero confuciano dopo aver studiato e praticato il Buddhismo Chan. Mentre Zhu Xi arrivò a criticare il Buddhismo, altri neoconfuciani non lo vedevano come necessariamente antitetico al Confucianesimo o al Neoconfucianesimo. Alla fine, però, non si può negare il fatto che molti neoconfuciani divennero più feroci critici del Buddhismo che concorrenti tolleranti. 

Alcune delle prime indicazioni di uno sforzo per stabilire l’apprendimento neoconfuciano come ramo indipendente di studio e pratica possono essere viste nei regni dell’imperatore Hanazono (1308-1318) e di Godaigo (1318-1339). La sfortunata Restaurazione Kenmu di Godaigo, un tentativo di ripristinare il pieno potere politico alla linea imperiale, si basava in parte sulla sua comprensione dell’autorità imperiale definita dai testi neoconfuciani. Inoltre, durante il periodo Ashikaga, alcuni monaci Zen Rinzai tornarono dagli studi in Cina sostenendo forme di apprendimento neo-confuciane per gli shogun. All’inizio del XV secolo, lo shogunato Ashikaga istituì l’Accademia Ashikaga, dove presumibilmente studiarono diverse migliaia di studenti di insegnamenti neoconfuciani. Tuttavia, anche in questo caso gli studenti erano tutti monaci Zen. Nel XVI secolo invece le decorazioni del castello di Azuchi di Oda Nobunaga (1534-1582), con dipinti raffiguranti Confucio e una serie di figure di saggi confuciani, testimoniano un cambio di rotta e l’importanza attribuita al confucianesimo per il pensiero di Nobunaga, che favorì il ritorno al pensiero confuciano in vista della prassi di governo in un paese ormai unificato e a contrasto del potere del clero buddhista. 

Nel complesso, il confucianesimo giapponese dal XVII all’inizio del XIX secolo si occupa principalmente di una questione filosofica, ma dai pesanti risvolti religiosi, ovvero definire filosoficamente l’integrità del linguaggio, del significato e della verità discorsiva. Questa riaffermazione non banale nasceva in opposizione alla visione buddhista del linguaggio che, nonostante la miriade di sutra e del canone buddhista, era piuttosto negativa. Secondo questi critici confuciani, i buddhisti ritenevano che il linguaggio ordinario mancasse del significato ultimo e della capacità di trasmettere la verità assoluta. Piuttosto che ricche di significati, i buddisti insistevano sul fatto che le parole dovevano essere considerate intrinsecamente vuote. Se intese erroneamente come portatrici di un significato sostanziale, diventavano fonte di profondi errori. Forse la caratteristica unificante del filosofeggiare confuciano nel primo periodo moderno era l’idea che le parole avessero un’importanza cruciale come veicoli di significati sostanziali. Inoltre, le parole e il loro corretto utilizzo erano ritenute dai confuciani assolutamente essenziali per la comprensione di sé, la coltivazione di sé e, al livello più alto, per governare il regno e portare pace e prosperità al mondo. In questo senso, la filosofia confuciana giapponese può essere vista come una filosofia del linguaggio dell’Asia orientale impegnata nella ricerca del giusto significato. Questo “giusto significato” era considerato fondamentale per qualsiasi tentativo di risolvere i problemi filosofici. 

Questa polemica antibuddhista è stata di grande importanza perché ha posto le basi teoriche per l’assimilazione concettuale dell’apprendimento filosofico occidentale durante il periodo Meiji (1868-1912). Inoltre, la filosofia confuciana giapponese moderna emerse in gran parte in opposizione alla religione occidentale del cristianesimo e a tutto ciò che vi era associato, compresa la minaccia di una possibile dominazione. Sebbene questo sia stato vero per tutto il periodo Tokugawa e anche nel Meiji, non è più evidente che in un’opera della prima età Tokugawa, l’Etica (Irinshō) di Matsunaga Sekigo. Scrivendo poco dopo la brutale sconfitta della ribellione di Shimabara, di matrice cristiana, del 1637-38, Sekigo si propose di combattere quella che considerava una pericolosa setta straniera che avrebbe potuto significare la rovina della politica giapponese. A differenza dei precedenti dibattiti contro i cristiani portati avanti da studiosi buddhisti su basi strettamente metafisiche e teologiche, Seikigo mirava a dimostrare la superiorità del confucianesimo come filosofia universale, a suo avviso, eppure distintamente asiatica e giapponese nelle sue radici culturali. In modo simile, alla fine del periodo Meiji, Inoue Tetsujirō, il primo professore di Filosofia all’Università imperiale di Tokyo, formatosi in Germania sulla base della filosofia hegeliana, definì il confucianesimo giapponese come la prima filosofia del Giappone, ma fu anche uno dei critici più espliciti e veementi del cristianesimo come sistema di pensiero intrinsecamente sbagliato e del tutto inappropriato per i giapponesi. Per gran parte della sua storia, il confucianesimo giapponese si è quindi implicitamente, se non esplicitamente, opposto al cristianesimo e alle sue premesse teoriche. 

Un’importante eredità della filosofia confuciana nella storia moderna del Giappone deriva dalla comprensione confuciana della filosofia della storia. Piuttosto che ipotizzare che la storia progredisse verso livelli sempre migliori, i confuciani tendevano a vedere gli ideali nel passato. Pertanto, spesso sostenevano il ritorno a una presunta età dell’oro come mezzo per migliorare le condizioni del presente. Confucio stesso, pur essendolo nei fatti, aveva negato di essere un innovatore, insistendo sul fatto che cercava solo di trasmettere gli ideali del passato. La trasformazione politica che diede origine al regime imperiale Meiji, almeno per quanto riguarda la sua presentazione filosofica come un ritorno a un modello antico e presumibilmente più ideale, rifletteva dunque un pensiero tipicamente confuciano. Il periodo Meiji, tuttavia, comportò ben presto un profondo allontanamento dai modelli tradizionali verso quelli più distintamente occidentali. Questo fu vero anche per la filosofia, con la conseguente relativa atrofia degli studi confuciani. Tuttavia, è significativo che la maggior parte dei leader Meiji che promossero le idee filosofiche occidentali avessero una formazione in studi confuciani. Nishi Amane (1829-1897), spesso indicato come il padre della filosofia occidentale in Giappone, lesse le opere filosofiche di Ogyū Sorai prima di dedicarsi allo studio delle idee di Auguste Comte e John Stuart Mill. Durante il movimento per i diritti del popolo degli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento, i sostenitori come Nakae Chōmin (1847-1901) spesso presentavano la loro concezione di termini tipici nel discorso filosofico occidentale come libertà, uguaglianza e diritti naturali come derivabile direttamente dal pensiero confuciano. 

Con l’oscillazione verso il conservatorismo e il nazionalismo nel tardo periodo Meiji, voci filosofiche come quella del già citato professer Inoue Tetsujirō sostennero tuttavia non tanto un ritorno fedele al confucianesimo in sé, ma a quella che Inoue chiamava kokumin dōtoku, ovvero “l’etica nazionale”. Questo insieme di insegnamenti si basava in gran parte su virtù confuciane selettive come la lealtà e la pietà filiale. Inoue è anche degno di nota per aver aperto la strada, anche se in modo molto nazionalistico, all’interpretazione degli sviluppi confuciani del primo periodo moderno come movimenti di “filosofia”, utilizzando una parola giapponese di recente conio, tetsugaku. Questa parola giapponese, scelta come glossario per “filosofia”, alludeva, nella letteratura cinese, proprio al Libro della Storia, classico del pensiero confuciano, dove tetsu si riferisce alla “saggezza” (in greco: sophia) manifestata dagli antichi saggi della Cina. In questo senso, lo “studio della saggezza”, il significato letterale di tetsugaku, era una caratterizzazione tanto azzeccata del progetto confuciano quanto di quello occidentale della filosofia. 

Sfortunatamente, il pensiero del kokumin dōtoku non fu al servizio della pace, ma si concretizzò in una pericolosa miscela nazionalistica, imperialistica e militaristica a sostegno delle politiche belliciste giapponesi degli anni ’30 e ’40 del secolo scorso. In particolare, gli ultimi anni di Inoue furono dedicati all’esposizione di una dottrina sistematica del bushidō, in gran parte frutto di elucubrazioni moderne e fortemente ideologiche, in cui si mischiano concetti tipicamente tratti dalle scuole buddhiste zen a tratti tipicamente confuciani. 

Con la sconfitta del Giappone nel 1945, le nozioni confuciane vennero considerate negativamente a causa della loro sfortunata appropriazione da parte di Inoue e di altri filosofi-ideologi del periodo fascista. Essi in effetti avevano manipolato l’etica di base della filosofia confuciana trasformandola in un insegnamento di lealtà allo stato imperiale e di sacrificio di sé per la sua gloria. Molti maestri confuciani, come lo stesso di Yamaga Sokō hanno di conseguenza sofferto di un notevole abbandono nel dopoguerra. È anche vero, però, che a causa della sensazione generale che esso fosse più ideologico che filosofico, il confucianesimo è stato interpretato più spesso semplicemente come “pensiero” (shisō) o “ideologia” (ideorogii), di marca tipicamente “feudale”. In altri paesi, tra cui la Cina contemporanea, gli interpreti stanno riesaminando il confucianesimo come una filosofia viva e di continuo significato, ma gli studiosi giapponesi hanno teso a considerarlo nella seconda metà del Novecento come un artefatto storico, e non una filosofia vitale. Al contrario, i dipartimenti di filosofia della maggior parte delle principali università giapponesi continuano a definire la “filosofia” come filosofia occidentale, trovando relativamente poco spazio per lo studio del Confucianesimo all’interno di questa rubrica. Va comunque detto che il XXI secolo ha tuttavia segnato una ripresa dello studio del Confucianesimo, per lo più sotto il profilo storico e teoretico, senza evitare la problematicità dell’eredità confuciana novecentesca, ma cercando anche di ritrovare in questa linea di pensiero asiatica risorse e temi per il pensiero contemporaneo, come la cura dell’ambiente, ma anche sotto il profilo sociopolitico e spirituale. 

Per concludere, oggi sarebbe probabilmente molto lontano dalla mentalità comune occidentale la definizione di confucianesimo come una “religione” vivente, e in effetti anche in Giappone esso viene piuttosto ascritto alla sfera filosofica. Tuttavia, è innegabile come l’insieme di dottrine che sono state proposte nei secoli come ispirate al pensiero di Confucio abbiano avuto un fondamentale ruolo religioso, spesso influenzando in modo preponderante, mediante dialogo o contrapposizione, il pensiero e le pratiche buddhiste e Shintō, e fornendo basi teoriche per la critica moderna al pensiero occidentale, e in particolare a quello di matrice cristiana.  

Riferimenti bibliografici:  

– Collcutt M., “The Confucian Legacy in Japan,” in G. Rozman (ed). The East Asian Region: Confucian Heritage and Its Modern Adaptation, Princeton University Press, Princeton 1991, pp. 111–154. 

– Nakajima T., “Confucianism in Modern Japan,” in M. Yusa, (ed) The Bloomsbury Research Handbook of Contemporary Japanese Philosophy, Bloomsbury Academic, New York 2017, pp. 43-64. 

– O’Dwyer S., Handbook of Confucianism in Modern Japan. Amsterdam University Press, Amsterdam 2022. 

– Tucker J., “Japanese Confucian Philosophy”, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Winter 2022 Edition), E. N. Zalta & U. Nodelman (eds.), URL = <https://plato.stanford.edu/archives/win2022/entries/japanese-confucian/>. 

– Yao X., An Introduction to Confucianism, Cambridge University Press, Cambridge 2000.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here