In questo breve articolo, di taglio divulgativo, non posso che limitarmi a esporre solo alcuni avvenimenti chiave, che però spero possano essere utili alla comprensione dello stato presente e passato del cristianesimo giapponese. Il  tema è infatti complesso, e trae le sue radici negli eventi alla base della modernità in Europa, ovvero le nuove scoperte geografiche alla fine del XV secolo e lo scoppio della Riforma protestante all’inizio del XVI. La reazione della Chiesa di Roma a questi due avvenimenti epocali è strettamente collegata agli eventi della storia giapponese dalla metà del XVI secolo in poi. Ma andiamo con ordine.

Nel 1494 Spagna e Portogallo, le principali potenze coloniali europee, conclusero il Trattato di Tordesillas, negoziato tramite Papa Alessandro VI, con il quale fu stabilita una “linea papale di demarcazione” che correva da nord a sud attraverso un punto a circa 2.220 km a ovest delle Isole di Capo Verde e divideva il mondo in una metà orientale e una occidentale. In accordo, tutte le isole e i continenti già scoperti o che sarebbero stati scoperti ad ovest di questa linea dovevano essere territorio spagnolo, e tutte quelli a est della linea dovevano essere territorio portoghese. Il Papa obbligò i monarchi spagnoli e portoghesi a promuovere la propagazione della fede cattolica in tutte le terre che sarebbero state scoperte e a sostenere l’onere finanziario di tale propagazione, in cambio della possibilità di gestire i territori secondo le proprie politiche ed esigenze.

Nel frattempo, in seguito alla spaccatura nel cristianesimo occidentale a partire dalla predicazione di Martin Lutero degli altri riformatori nei territori germanici del Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca, il cattolicesimo aveva reagito cercando nuovi strumenti di diffusione, controllo e difesa della fede cattolica, tra cui non possiamo non citare la fondazione della Compagnia di Gesù, o Gesuiti, ad opera di Ignazio di Loyola, nel 1534.

Quest’ordine religioso fedelissimo al papa di Roma giocò un ruolo di primo piano nel tentativo di diffusione del cattolicesimo in Asia orientale. Infatti, sulla base del Trattato di Tordesillas, i membri portoghesi della Compagnia di Gesù salparono da Lisbona, navigarono lungo la costa occidentale africana, doppiarono il Capo di Buona Speranza e raggiunsero Goa in India. Da lì passarono lo Stretto di Malacca e raggiunsero il Giappone da Macao in Cina, l’ultima base portoghese.

I francescani, i domenicani e gli agostiniani spagnoli, invece, navigarono verso ovest da Siviglia e si diressero ad Acapulco in Messico, attraversarono il Pacifico  e proseguirono per le Hawaii fino alle Filippine. Fecero di Manila la loro base, da cui partire per il Giappone. L’arcipelago nipponico fu sin da subito conteso da due prospettive diverse e contrastanti.

La storia del cristianesimo in Giappone è dunque in primo luogo legata alla presenza del cattolicesimo romano nella prima età moderna. Il periodo di circa cento anni, dall’arrivo di Francesco Saverio SJ nel 1549 fino al martirio nel 1644, di Mantio Konishi SJ, l’ultimo missionario ultimo missionario rimasto in Giappone, è noto come “periodo kirishitan“. Il termine giapponese kirishitan, che deriva dalla parola portoghese christão, è un termine storico che, fin dall’arrivo di Saverio in Giappone, si riferisce in primo luogo alla Chiesa cattolica romana e ai suoi seguaci.

La promulgazione da parte del governo Tokugawa nel 1614 che porta ad un divieto assoluto di praticare la religione cristiana in tutto il Giappone segnò l’inizio di una persecuzione selvaggia che produsse un gran numero di violenze contro i cristiani. I tre decenni dal 1614 al 1644 furono un periodo in cui la persecuzione e i martiri raggiunsero il loro apice. Alla fine di questo periodo non era rimasto missionario nel paese e da quel momento in poi i fedeli dovettero mantenere la loro fede autonomamente, fingendo esteriormente di essere buddhisti. Questo stato di cose continuerà fino al 1873. In quell’anno il governo Meiji rimosse gradualmente tutte le proibizioni in merito alla presenza di organizzazioni cristiane in Giappone, a causa delle nuove esigenze diplomatiche con i paesi occidentali.

Come abbiamo accennato, la predicazione cristiana in Giappone era stata portata avanti soprattutto dai gesuiti, i quali erano sotto il patrocinio della monarchia portoghese. Per questo motivo la maggior parte dei gesuiti che giunsero in Giappone erano per lo più portoghesi e la lingua usata per la predicazione era principalmente il portoghese, mentre il lessico liturgico era naturalmente in latino.

Uno dei fondatori della Compagnia di Gesù, Francesco Saverio SJ, salpò da Lisbona nel 1541 allo scopo di propagare la fede in Estremo Oriente. Utilizzando Goa come base, svolse attività missionarie fino alle Molucche. Nel 1547 incontrò a Malacca un giapponese di Kagoshima, e avendo compreso l’alto livello di civilizzazione delle isole nipponiche, decise di predicare il Vangelo in Giappone. Yajiro di Kagoshima fu il primo giapponese ad essere battezzato, a Goa, presso il Collegio di San Paolo.  Nel 1549, accompagnato da Yajiro e da altri due giapponesi, Francesco Saverio si recò in Giappone. Insieme a due compagni gesuiti, Cosme de Torres (1510-1570) e Juan Fernandez (1526-1567), sbarcarono a Kagoshima. Lì i primi tentativi di traduzione rivelarono problemi non banali, non solo a causa dell’assoluta diversità linguistica anche rispetto al cinese, già noto agli occidentali, ma soprattutto per la necessità di rendere concetti teologici del tutto nuovi, che potevano essere accostati soltanto a concetti buddhisti totalmente inadatti ad esprimere la dottrina cristiana. 

Kagoshima si trova nella parte più meridionale del Giappone. Da lì la compagnia di gesuiti decise di recarsi nella capitale Kyoto per avere un’udienza con l’imperatore ma le condizioni politiche interne del tempo non consentirono la prosecuzione dell’opera, per cui gli occidentali si videro costretti a tornare in Cina, lasciando però sul territorio Cosme de Torres, il quale assunse la direzione delle attività  missionarie in Giappone, specialmente nella zona di Kyoto, dove si rivolgeva alle classi più elevate. Nonostante le difficoltà iniziali, nel 1563 Omura Sumitada (1533-1587) divenne il primo daimyo cristiano in Giappone, inaugurando un trend seguito anche da altri signori feudali locali, i quali diedero il permesso di svolgere attività missionarie nei loro territori, in primo luogo attratti dalle prospettive di un proficuo commercio con i Portoghesi. In molti casi, però, poco dopo essersi resi conto degli scarsi vantaggi economici derivati dall’operazione, tornarono alle pratiche tradizionali e perseguitarono anche attivamente i cristiani.

Del resto, bisogna notare come nei dieci anni dopo lo sbarco di Francesco Saverio in Giappone, il numero dei convertiti era di circa 6.000; nel 1569 erano circa 20.000 e nel 1579, trent’anni dopo l’arrivo dei gesuiti, erano saliti a 130.000. All’inizio del 1630 il numero dei battezzati ammontava a 760.000 su una popolazione stimata in circa 12.000.000 di individui. 

Questi numeri così elevati furono il risultato di politiche di conversioni di massa imposte dai signori feudali alla popolazione locale, volte a soppiantare la presenza buddhista sul territorio. In questo clima molti monaci buddhisti vennero obbligati a convertirsi e coloro che si rifiutarono di farlo furono banditi dai loro feudi; le proprietà dei templi furono confiscate e i templi furono consegnati ai missionari per essere trasformati in chiese. Naturalmente questo dice anche qualcosa sulla reale comprensione della dottrina cristiana da parte dei neo-convertiti. 

Del resto, questa era la politica di espansione voluta da Roma, e Alessandro Valignano, vicario generale e visitatore dell’Asia orientale per la Compagnia di Gesù, ribadì più volte che la questione dell’approfondimento dottrinale era considerato un compito da svolgere solo dopo la conversione.

La politica di base di Valignano per il lavoro missionario in Giappone era quella dell’accomodamento (accommodatio) alla cultura nativa, in cui i missionari dovevano mostrare stima per la cultura giapponese, senza distruggerla, ma integrandola con la cultura occidentale cristiana. Per fare questo era necessario in primo luogo convertire le élites per poi raggiungere gli strati inferiori della società.

Questo atteggiamento di Valignano di sforzarsi di adattarsi alla cultura nativa diede un enorme contributo alla conoscenza del Giappone da parte del mondo europeo e anche alla comunicazione tra mondo occidentale e orientale, sino a quel tempo del tutto impensabile. In particolare si ordinò la creazione di scuole di giapponese per i monaci, si composero istruzioni sull’etichetta giapponese, sul vestiario e sulle norme architettoniche per le chiese giapponesi, in linea con lo stile locale. Presto si formarono seminari per formare il clero indigeno e insegnare loro il latino e il portoghese.

Nagasaki, il cui daimyo era convertito, divenne la base del commercio tra Giappone e Portogallo e si sviluppò rapidamente come città principale del cristianesimo giapponese.

Queste condizioni di rapida crescita cominciarono a cambiare dopo l’unificazione del paese da parte di  Toyotomi Hideyoshi (1537-90) nel 1587, il quale aveva improvvisamente emesso un ordine di espulsione di tutti i missionari stranieri. La città di Nagasaki fu posta dunque sotto il diretto controllo del governo e sottratta all’influenza occidentale.

Anche se l’ordine di espulsione non fu seguito subito in modo rigoroso, tuttavia costrinse i missionari a evitare attività che potessero attirare l’attenzione dell’opinione pubblica.

Nel frattempo, papa Gregorio XIII aveva emanato un decreto nel 1585 in cui affidava la missione giapponese esclusivamente alla Compagnia di Gesù, di fatto escludendo altre possibili missioni vicine alla Spagna, ormai relegate alle sole Filippine. Purtroppo, in questo stesso periodo, in seguito a ripicche e giochi diplomatici finiti male, ebbe luogo uno dei più cruenti episodi di persecuzione anticristiana in Giappone, a Nagasaki, il 5 febbraio 1597, in cui vennero torturati e uccisi per crocifissione i cosiddetti “ventisei santi giapponesi”.

Dopo la morte di Hideyoshi, avvenuta l’anno successivo, scoppiò una lotta tra i suoi successori. Tokugawa Ieyasu ne uscì vincitore nel 1603. La politica incerta nei confronti degli stranieri da parte del nuovo regime consentì un po’ di respiro a cristiani, tuttavia, nel 1600, la Curia romana eliminò il diritto esclusivo di missione della Compagnia di Gesù, facilitando l’ingresso di altri ordini e complicando il lavoro di missione presso i locali. 

Nel frattempo, gli ultimi decenni del ‘500 in Europa avevano segnato l’emergere delle potenze mercantili protestanti di Inghilterra e Olanda sulla Spagna e sul Portogallo. Le nuove compagnie delle indie si affacciarono dunque al Giappone, tradizionalmente cattolico, al solo scopo di promuovere il commercio tra i rispettivi paesi, senza volontà missionarie. L’ingresso di questi nuovi attori commerciali in Giappone fece comprendere al governo giapponese che non aveva bisogno di tutelare le missioni portoghesi o spagnole per poter avere accesso alle navi occidentali. Per questo motivo, nel 1614 il governo del Bakufu emise un’ordinanza a livello nazionale che proibiva il cristianesimo ed espulse i missionari e i leader cristiani più influenti. Con questo ordine iniziò la radicale soppressione dei kirishitan da parte del governo Edo, durata più di 200 anni. Tutte le chiese e i monasteri nel paese furono distrutti. I missionari e i kirishitan appartenenti a famiglie nobili e influenti, furono espulsi verso Macao o Manila. Negli anni tra il 1615 e il 1643 diversi missionari cercarono di rientrare clandestinamente, ma vennero brutalmente assassinati. 

Tuttavia, Le eclatanti esecuzioni pubbliche per decapitazione o rogo paradossalmente accrebbero la venerazione della popolazione locale verso i monaci occidentali, e per questo motivo le autorità giapponesi optarono per lunghe e crudeli torture private per far sì che le vittime rinunciassero alla loro fede, piuttosto che ucciderle subito. Sottoposti a torture terribili, alcuni gesuiti abiurarono la loro fede, suscitando anche shock culturali non indifferenti tra i loro correligionari. 

Durante il periodo Edo sono accertate dai documenti più di 4000 esecuzioni di cristiani, ma le stime fanno pensare a numeri ben più grandi. 

Come abbiamo accennato in un precedente articolo sul blog, questo è il periodo in cui il governo implementa la presenza buddhista nel territorio, utilizzando i templi per censire la popolazione e controllarne le credenze. Dal 1635 ogni famiglia residente in un territorio doveva essere registrata in un tempio buddhista e dichiarare di non essere cristiana, inoltre le delazioni contro i cristiani erano remunerate e favorite dal governo.

I documenti che ci permettono di indagare sul credo dei kirishitan durante l’esistenza della clandestinità sono estremamente rari, tuttavia nei 230 anni di clandestinità il cristianesimo giapponese, senza più contatti con un clero formato, era notevolmente cambiato, ibridandosi con credenze tradizionali indigene e di fatto allontanandosi molto dagli elementi essenziali della dottrina cristiana. 

Più tardi, nel 1858, il governo di Edo concluse accordi commerciali con cinque paesi Inghilterra, America, Russia, Francia e Olanda, abbandonò la politica di isolamento nazionale e aprì i porti di Hakodate, Yokohama e Nagasaki. Questo incoraggiò un nuovo arrivo di missioni cristiane occidentali, cui però non si accompagnò una immediata tolleranza verso i kirishitan locali, che ancora negli 60 del XIX secolo furono apertamente perseguitati, con circa 600 condanne a morte in pochi anni.

Solo nel 1873, in un contesto economico e culturale ormai del tutto cambiato, fu revocato il bando contro i cristiani. La Chiesa cattolica ritornò a stabilire delle comunità, specialmente nel sud del paese, e molti kirishitan vi si rivolsero, tuttavia, molti gruppi di sopravvissuti alle persecuzioni, i cosiddetti kakure kirishitan (“cristiani nascosti”), decisero di mantenere la fede nella forma in cui fu trasmessa loro fin dai tempi della loro esistenza sotterranea, senza rientrare a far parte del cattolicesimo romano da cui trassero origine. Questo fenomeno è comprensibile se si pensa ai significativi cambiamenti avvenuti durante questo lungo periodo di clandestinità, che di fatto rendeva la loro comprensione del cristianesimo (o di ciò che ne restava) assai diverso da quello proposto loro dai nuovi missionari occidentali.

Nel 1891 nacque comunque l’arcidiocesi cattolica romana di Tokyo, che fu consegnata al clero giapponese nel 1937. Il bombardamento atomico di Nagasaki del 9 agosto 1945 uccise 8500 dei 12.000 cattolici della più grande comunità cristiana del Giappone, ma ancora oggi la città è uno dei principali centri di diffusione del cattolicesimo romano nel paese del Sol Levante. Va notato che negli ultimi decenni il paese ha ricevuto maggiori attenzioni dai pontefici rispetto al passato, in particolare mediante la visita di Giovanni Paolo II nel 1981 e più recentemente, nel 2019 di Francesco I. Nel 2016 è anche uscito nelle sale un film dedicato alle persecuzioni anticristiane in Giappone nel periodo Tokugawa: Silence, di Martin Scorsese.

Se il cattolicesimo gioca un ruolo fondamentale nella storia giapponese, non va dimenticato tuttavia che dal periodo Meiji anche altre confessioni cristiane hanno avuto una loro importanza in Giappone. In particolare vale la pena di ricordare la fondazione della Chiesa Ortodossa Russa in Giappone a partire dalla predicazione del sacerdote e monaco russo Nikolaj Kasatkin, cui si deve la prima evangelizzazione dell’Hokkaido a partire dal 1861. Naturalmente il conflitto russo-giapponese all’inizio del ‘900 e poi il conflitto con l’Unione Sovietica nei decenni successivi non aiutarono la presenza russa sul territorio giapponese, che comunque resiste tutt’ora e può vantare il primato di aver costruito il primo edificio più alto del palazzo imperiale di Tokyo, ovvero la cattedrale della resurrezione. La chiesa, in stile bizantino, fu danneggiata nel terremoto del 1923, ma è tutt’ora visitabile; dedicata allo stesso Nikolaj (nikorai-dō), canonizzato santo nel 1970, è ancora oggi sede dell’arcidiocesi ortodossa russa del Giappone.

Per quanto riguarda il panorama protestante, già alla fine del periodo Edo il Trattato di Harris (1858) permise agli stranieri (e solo a loro) di vivere la propria fede cristiana in Giappone. A questo scopo, vennero costruiti quartieri separati per gli stranieri con chiese nei pressi dei porti aperti recentemente dal Giappone. Nel 1859, i primi missionari protestanti sbarcarono a Nagasaki e Yokohama (allora Kanagawa). Alcuni portarono con sé l’esperienza della missione in Cina e scoprirono che i giapponesi istruiti erano in grado di leggere la Bibbia cinese, il che portò ai primi contatti con la popolazione. La maggior parte dei giapponesi interessati al cristianesimo in questo primo periodo erano giovani intellettuali provenienti da famiglie Shōgun o da famiglie di ex signori feudali.

Yano Mototaka (Ryūzan), traduttore e insegnante di lingue, ricevette il battesimo sul letto di morte nel 1865 e fu il primo giapponese protestante. La prima formazione ecclesiastica fu la Yokohama Kōkai, nata da incontri di preghiera segreti di studenti giapponesi, fu officialmente fondata il 10 marzo 1872. Altri gruppi si formarono a Kōbe, Osaka, Kyōto e in altre città. Spesso le prime conversioni di Giapponesi alla fede evangelica avvennero mediante insegnati e precettori occidentali, che accanto alle lezioni di lingua e cultura formavano studi biblici clandestini nelle loro abitazioni private.

Le prime congregazioni di Yokohama e Tokyo furono presbiteriane, mentre quelle di Kōbe, Osaka e Kyōto si basavano su una missione congregazionalista, tutte comunque di origine americana. Nel frattempo, le missioni congregazionaliste e presbiteriane raggiunsero anche la popolazione rurale. Nel 1890 c’erano in totale 300 congregazioni con circa 34.000 membri. Le congregazioni sostenevano la modernizzazione e si battevano in particolare per un miglioramento della posizione delle donne nella società giapponese, favorendone per la prima volta l’istruzione. Nel 1889, la Costituzione Meiji (art. 28) concesse la libertà di religione, ma solo a patto che l’ordine pubblico non fosse disturbato e che i cristiani adempissero ai loro doveri civici. Questa clausola divenne un problema quando il culto dell’imperatore fu dichiarato un valore fondamentale dalla nuova legge sulla morale pubblica del 1890. Uchimura Kanzō, all’epoca insegnante di scuola superiore, rifiutò il culto dell’imperatore in quanto cristiano e fu quindi licenziato. La sua continua attività di predicatore laico diede origine al movimento cristiano Mukyōkai.  Con 420 congregazioni e 43.000 membri, il protestantesimo raggiunse il suo apice in Giappone intorno al 1900, ma in seguito le congregazioni rurali scomparvero a causa della pressione sociale; nelle città, i circoli cristiani più intellettuali resistettero venendo a patti con il culto imperiale.

Durante la democrazia Taishō, il carattere accademico delle congregazioni protestanti ebbe una notevole fioritura. Un esempio è Hatano Seiichi (1877-1950), che studiò filosofia europea con Raphael von Köber all’Università di Tokyo e conseguì il dottorato con una tesi su Spinoza. Hatano ebbe modo di studiare teologia presso le università di Berlino e Heidelberg (1904-1906), dove ascoltò i maggiori teologi del tempo: Adolf von Harnack, Ernst Troeltsch e Adolf Deißmann, tra gli altri. Tornato in Giappone, nel 1907 tenne una conferenza accademica sul cristianesimo da cui derivò il primo libro di teologia accademica giapponese (Sull’Origine del Cristianesimo, 1908). Anche Ishiwara Ken (1882-1976) conseguì il dottorato a Köber con una tesi sulla cristologia del Logos nel Vangelo di Giovanni; i suoi studi all’estero lo portarono alle università di Basilea e Heidelberg nel 1921-1923. 

Sotto l’impulso della Conferenza Missionaria Mondiale di Edimburgo del 1910, anche le chiese protestanti giapponesi tentarono di formare un’unione, prima l’Associazione delle Chiese Cristiane in Giappone, poco dopo l’Associazione dei Cristiani in Giappone (NCCJ). Nel 1926, 13 chiese, 8 organizzazioni cristiane e 22 società missionarie appartenevano a questa organizzazione ecumenica. Il desiderio di unità delle chiese esisteva già da tempo, ma la politica religiosa del governo diede il via alla tendenza che ha portato alla fondazione della Chiesa Unita di Cristo in Giappone (Nihon Kirisuto Kyōdan). Nell’aprile del 1940 entrò in vigore una nuova Legge sulle Comunità Religiose. Il dipartimento del Ministero dell’Educazione responsabile degli affari religiosi dichiarò che un “ente religioso legittimo” doveva avere almeno 50 congregazioni o 5.000 membri ed essere finanziariamente indipendente da paesi stranieri. Per questo motivo, il governo premette per avere un solo ente di controllo per le chiese protestanti sul territorio. Fondato nel 1941, il Kyōdan sostenne la politica del governo giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale, ma nonostante questo appoggio restò osservata speciale per i suoi rapporti con le chiese occidentali e la possibile influenza anglo-americana. 

Dopo la sconfitta del Giappone nel 1945, la missione protestante conobbe inizialmente un boom, ma la frammentazione confessionale riprese sempre più spesso. Diverse chiese si staccarono dal Kyōdan, che da un lato si era riunito sotto la pressione dello Stato, ma dall’altro era anche screditato dalla sua vicinanza alle politiche di quest’ultimo. Ad esempio, 18 congregazioni di tradizione presbiteriana riformata lasciarono il Kyōdan nel 1946 e fondarono la Chiesa Riformata in Giappone (Nihon-Kaikakuha-Kyōkai). Nel 1947, la Holiness Church in Japan si staccò dal Kyōdan, così come l’Unione Battista in Giappone, gli Amici di Cristo e la Chiesa Evangelica Luterana in Giappone. Già nel 1947 si contavano 24 chiese protestanti, ma il numero salì a 76 nel 1953, ma ci fu anche un contro-movimento di stampo ecumenico: nel 1948 fu fondato il Consiglio Nazionale Cristiano in Giappone (Nihon-Kirisutokyō-Kyōgikai), le cui chiese membri costituivano circa il 90% delle congregazioni protestanti in Giappone. La più grande chiesa membro divenne la Chiesa Unita di Cristo in Giappone, seguita dalla Chiesa Anglicana (Nippon Sei Ko Kai).

Nel 1967 il Kyōdan adottò una Dichiarazione di Colpa di Guerra in cui riconosceva la corresponsabilità per i crimini di guerra del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale e ne traeva un impegno a lavorare per la pace. 

Oggi il cristianesimo in Giappone resta un movimento di minoranza, frammentato tra le diverse confessioni e poco rilevante da un punto di vista politico. Tuttavia può stupire come negli ultimi decenni sempre più giapponesi, per lo più non cristiani, decidano di sposarsi in una chiesa cristiana secondo il rito occidentale. In un certo senso, si può dire che se al buddhismo è stato assegnato per lo più l’ambito funebre, al cristianesimo giapponese è spettato quello matrimoniale. Naturalmente si potrebbe discutere a lungo sul senso e la liceità di questo tipo di atteggiamento sincretistico da un punto di vista teologico, ma come abbiamo avuto modo di notare anche nei precedenti articoli, l’approccio religioso giapponese è fondamentalmente sincretistico e pragmatico, incentrato su categorie rituali e pratiche più che teoretiche e logiche. Ciononostante occorre anche rilevare che diverse migliaia di Giapponesi scelgono oggi consapevolmente e con una formazione ben diversa rispetto al passato di aderire ad una particolare denominazione cristiana, cosa che in passato non si è mai davvero potuta verificare. Per concludere, la storia del cristianesimo giapponese è in primo luogo il racconto di un rapporto lungo e complesso tra incontro e scontro con l’occidente e le sue categorie fondanti; una storia di resistenza, ma anche di violenza e persecuzioni.

Riferimenti bibliografici:

  • Ballhatchet H. J., “The Modern Missionary Movement in Japan: Roman Catholic, Protestant, Orthodox”,  in M. M. Mullins (ed), Handbook of Christianity in Japan (HdO 5/10), Brill, Leiden-Boston 2003, pp. 35-68.
  • Higashibaba I., Christianity in Early Modern Japan: Kirishitan Belief and Practice (BJSL 16), Brill, Leiden-Boston-Köln 2001.
  • LeFebvre J., “Christian Wedding Ceremonies: Nonreligiousness in Modern Japan”, in «Japanese Journal of Religious Studies» 42/2 (2015), pp. 185-203. 
  • Miyazaki K., “Roman-Catholic Mission in Pre-Modern Japan”, in M. M. Mullins (ed), Handbook of Christianity in Japan (HdO 5/10), Brill, Leiden-Boston 2003, pp. 1-18.

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