Nello scorso articolo abbiamo visto come il concetto di “religione” (shūkyō) in Giappone si sia formato fondamentalmente attraverso l’incontro con il cristianesimo e la cultura occidentale.  Naturalmente però, il Giappone possedeva già da secoli un insieme di pratiche, rituali e credenze che potremmo definire religiose, e il termine Shintō, seppure non comune, è attestato in fonti scritte a partire dall’VIII secolo. Non una “fede” né tanto meno una religione organizzata secondo un modello istituzionale, si tratta invece di un amalgama di atteggiamenti, idee e modi di fare che, nel corso di due millenni e più, sono diventati parte integrante del modo di vivere del popolo giapponese, pur essendo emerso nel corso dei secoli sotto diverse influenze etniche e culturali. 

All’epoca in cui il concetto di religione fu introdotto per la prima volta in Giappone, questo insieme di pratiche venne chiamato shinkyō (“insegnamento dei kami”), tra gli altri termini, proprio nel tentativo di assimilarlo al concetto occidentale di religione. Tuttavia, poiché era rimasto invischiato nella competizione per il primato nel nuovo panorama culturale dominato da cristianesimo e buddismo, le altre due principali religioni, il governo Meiji (1868-1912) si preoccupò che la tradizione religiosa indigena potesse perdere e smarrirsi nel nuovo assetto sociale moderno, generando sudditanza verso le potenze straniere. 

Così, all’inizio degli anni ’80 del XIX secolo, il governo stabilì che venisse adottato il termine Shintō (lett. La via dei kami). Da quel momento è stato enfatizzato nelle dichiarazioni pubbliche del governo e delle istituzioni che Shintō non doveva essere considerato nella categoria della religione. Questa denominazione, cambiando il secondo carattere del composto in (via), ha cercato di distinguerlo dalle “religioni”, che erano indicate con il carattere kyō
Un nuovo termine venne utilizzato per descrivere le pratiche religiose tradizionali giapponesi, in contrasto con la religione: dōtoku, la pubblica moralità. 
Il dōtoku condivideva il carattere “tō” con lo Shintō, ma era anche completamente distinto dalla nuova parola shūkyō

La nuova terminologia governativa cercava quindi, attraverso la scelta di caratteri appropriati, di distinguere per Shintō un campo semantico e sociale completamente separato dal concetto occidentale di religione. 

All’inizio degli anni Ottanta del XIX secolo, a causa del processo di modernizzazione di stampo occidentale, la parola shūkyō si era affermata anche per per riferirsi alla questione dei diritti legali legati alla libertà religiosa. Per questo motivo, la parola dōtoku veniva ora invocata nell’ambito pubblico della nazione giapponese e veniva inteso come relativo al dovere civico dei sudditi dello Stato. Da quel momento, i termini shūkyō e dōtoku sarebbero stati dicotomici e antitetici, dividendo l’attività umana in Giappone in sfera privata e pubblica.  
In questo passaggio occorre tenere bene a mente che il discorso politico sulla libertà religiosa è stato fondamentalmente ereditato dalla riflessione filosofica occidentale, e in particolar modo di matrice protestante, sulla separazione “chiesa-stato” nel corso della prima età moderna, e sarebbe stato del tutto alieno nella tradizionale impostazione sociale giapponese. 
La dicotomia tra pubblico e privato che si accompagnava alla parola shūkyō dall’Occidente come legata alla sfera interiore individuale e alla concezione dicotomica del religioso e del secolare si formò quindi di fronte alla minaccia di colonizzazione da parte dei paesi occidentali, assecondando la tendenza giapponese a conferire priorità all’ambito pubblico e comunitario su quello individuale e privato. 

Lo Shintō moderno non è stato perciò collocato nel dominio privato della religione, bensì nel dominio pubblico del secolare. Con questo mezzo, lo Shintō riuscì a prescrivere i suoi atti di religiosità come dovere pubblico di tutte le persone dello Stato, indipendentemente dalle credenze dei privati cittadini. 
Anche se lo Shintō apparteneva in effetti a ciò che un occidentale definirebbe “religione”, nel senso che celebrava le feste per i kami, le sue osservanze erano ufficialmente definite come un obbligo morale pubblico non religioso. Pertanto, le attività dello Shintō potevano essere richieste come dovere civico a qualsiasi soggetto all’interno della compagine statale. 

In queste circostanze, le molte pratiche rituali tradizionali diffuse nel Giappone moderno furono ridefinite più come una forma razionale di dōtoku piuttosto che una religione, conferendole una posizione di preminenza rispetto alle tradizioni religiose straniere. 
Lo Shintō, che era emerso in modo tale da evitare la competizione con le strutture religiose del Cristianesimo e del Buddismo, non aveva una dottrina di salvezza personale, non aveva un fondatore e nessun testo sacro. Mancava decisamente il carattere di una religione che offrisse soluzioni per i problemi esistenziali affrontati nella vita interiore dell’individuo. In questo senso, si potrebbero cogliere analogie con alcuni aspetti della tradizione religiosa romana più antica. 

Del resto, i suoi rituali tradizionali erano radicati nella vita quotidiana delle comunità rurali ed erano intimamente connessi alle attività delle persone nell’arena pubblica da molto tempo. Per questo motivo era comprensibile che i politici e i burocrati dell’epoca Meiji pensassero che il modo più appropriato di regolare lo Shintō fosse quello di collegarlo al comportamento morale nella sfera pubblica. 

Tuttavia, dal momento che lo Shintō era originariamente la celebrazione rituale dei kami, non potevano dire che fosse completamente scollegato dalla “religione”. Paradossalmente, nel processo di definizione di Shintō come codice di moralità pubblica, di fatto il pubblico assumeva carattere religioso, e a questo punto si poneva il problema di quale sarebbe stata esattamente la natura dei kami che Shintō avrebbe celebrato. 
La maggior parte dei kami celebrati nelle feste dello Shintō possono essere ricondotti al lignaggio familiare degli imperatori. Allo stesso tempo, lo Shintō oggi è composto da elementi diversi: santuari, rituali della famiglia reale, credenze popolari. I rituali della corte imperiale sono in genere sono legati alle antiche cerimonie per il culto delle divinità degli antenati dell’imperatore, in particolare l’esecuzione di rituali per le divinità del cielo e della terra. I culti popolari ottocenteschi di derivazione Shintō come Tenrikyō o Konkōkyō hanno strutture dottrinali e rituali che incorporano la venerazione degli imperatori insieme alla mitologia del Kojiki, del Nihonshoki e di altri documenti antichi. 
Fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, questi ultimi gruppi facevano parte di una categoria legale chiamata “Shintō settario”, che di fatto faceva ricadere gli aderenti nella categoria dello shūkyō. Del resto la parola “Shintō” si riferisce anche alle credenze popolari intrecciate al tessuto della vita di tutti i giorni, e che possono riguardare le divinità della cucina e gli dei delle celebrità, che entrano ed escono rapidamente dal favore popolare. 

La designazione autocosciente e seriale di questo tipo di religiosità autoctona giapponese con il termine “Shintō” iniziò solo intorno al XII-XIII secolo. Tuttavia, la fluidità e la natura asistematica dei culti tradizionali condussero ben presto a subire forti influenze da parte delle dottrine buddiste nel paese. Man mano che lo Shintō incrementava il suo sincretismo con il Buddismo, si sentì l’esigenza di valorizzare il ruolo dei miti contenuti in antichi testi come Kojiki e Nihonshoki servendo ad articolare la propria dottrina particolare, sebbene attraverso la fusione con gli insegnamenti buddisti.  
Verso la fine del periodo Edo (prima metà del XIX secolo), movimenti intellettuali come il Kokugaku sono apparsi nella ricerca di tradizioni puramente giapponesi che spinsero la tendenza alla separazione dello Shintō dal Buddismo e rafforzarono il legame della pratica rituale dello Shintō con la corte imperiale. Con l’inizio con l’avvento dell’era moderna, questo movimento identitario è stato istituzionalizzato attraverso la campagna lanciata dal governo nei primi anni dell’era Meiji per separare completamente Buddismo e Shintō (shinbutsu bunri). Lo Shintō ha poi continuato a sviluppare le proprie strutture dottrinali e rituali indipendenti e il suo legame con il sistema dell’imperatore, che era stato riportato all’apice della struttura politica, fu rafforzato attraverso i rituali di palazzo e i santuari stabiliti. In questo processo, gli elementi buddisti che si erano insinuati nella mitologia tradizionale del periodo medievale furono completamente rimossi. Ripristinando i rituali Daijōsai e Niinamesai e i pellegrinaggi ufficiali al Santuario di Ise, il governo Meiji promosse sempre più il ritorno di Shintō a quelle che aveva determinato essere le pratiche rituali dei tempi antichi. 

Tuttavia, ciò che il governo Meiji avrebbe fatto rivivere come l’antico e originario Shintō non era in realtà una restituzione filologica della tradizione antica in sé, ma qualcosa richiesto dalla politica di uno Stato nazionale moderno, di stampo estremamente occidentale. Da quando il Paese è stato aperto dalle potenze occidentali, infatti, i politici e gli intellettuali giapponesi avevano costantemente avvertito il pericolo che il Giappone diventasse soggetto alla colonizzazione da parte delle grandi potenze straniere. Questa sensazione di minaccia dall’esterno era ciò che alimentava anche il movimento, anche di ispirazione confuciana, sonnō jōi (“riverire l’Imperatore, espellere i barbari stranieri”), che ha suscitato una nuova coscienza nazionalistica, nel tentativo di ricostruire un passato tradizionale identitario, solido e indipendente. Purtroppo questa operazione non è stata priva di conseguenze per il Paese del Sol Levante, né tanto meno per gli abitanti di altri paesi dell’estremo oriente, dal momento che ha condotto la politica giapponese della prima metà del XX secolo verso la costituzione dell’Asse con Berlino e Roma al tempo della II Guerra Mondiale. Bisogna dire comunque che con l’emanazione della nuova costituzione democratica giapponese nel 1947 anche il rapporto tra Shintō, autorità imperiale e spazio pubblico è stato fortemente ridimensionato. 

Quando si parla di Shintō nel Giappone contemporaneo, occorre dunque tenere a mente il retroterra nazionalistico che ha accompagnato lo sviluppo ideologico di pratiche tradizionali antiche e di per sé non necessariamente legate alla sfera dello stato-nazione; tuttavia non si dovrebbe commettere l’errore di derivare le convinzioni politiche (e, in senso occidentale, nemmeno “religiose”) di una persona semplicemente osservandone alcuni atteggiamenti rituali, che non solo possono essere intesi come del tutto svincolati dalla sfera del religioso, ma, oggi, anche sempre più calati in un sistema culturale individualistico e globalizzato, molto lontano dalle culture rurali in cui sono sorti questi stessi rituali, più o meno antichi. Per concludere con le parole di Ian Reader (1991, p.76): 

«Even if Shinto has suffered structural weaknesses as a result of contemporary change, and even though many of the modern manifestations of its traditional themes, such as urban festivals, have been less reliant on overt religious symbolisms, it is clear that many of its underlying functions and outlooks continue to be relevant today, adapted to the new conditions of the age and manifested in new guises relevant to contemporary circumstances» 

Riferimenti bibliografici: 

Jun’ichi I., Religious Discourse in Modern Japan: Religion, State and Shintō, Translated by Galen Amstutz and Lynne E. Riggs, Brill, Leiden-Boston 2014, pp. XIV-XXV. 

Ono S. (in collaboration with W. P. Woodard), Shinto: The Kami Way, Tuttle, Tokyo-Rutland, VT Singapore 1962, pp. 1-10. 

Reader I., Religion in Contemporary Japan, MacMillan, Basingstock 1991, pp. 55-76.

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