Tutti iniziano a fare iaido per le stesse quattro ragioni:

1. le spade sono fighe;
2. i cartoni animati ci hanno insegnato che il Giappone vince sempre i mondiali;
3. metti che un giorno arrivano gli Ottantotto Folli di Kill Bill, bisogna sempre essere preparati ;
4. tutti vogliono poter dire “Hey, io faccio arti marziali”, ma pochi vogliono farsi picchiare in faccia.

Nel mio caso, aggiungiamo anche il fatto che la palestra è a cento metri dallo studio, il che costituisce un plus non indifferente.

Ho iniziato, peraltro, con l’assoluta e radicata certezza che, per me karateka mediamente ‘esperto’, sarebbe stata una strada in discesa. Sarei – come sempre ero stato in più o meno tutto quel che ho fatto nella mia vita – nel top della categoria, grazie a doti (in)naturali, capacità intellettive, prestanza atletica ed incorreggibile modestia.

“Oh per carità”.

Lo iaido, quando inizi (soprattutto quando, per la prima volta, ti vesti da Toshiro Mifune e ti compri lo iaito custom, con tutta una serie di gadget di cui non conosci senso e funzione, ma che scegli perché “Mitico, il drago!”), è una cosa che capisci subito. Una dozzina di kata di quattro mosse in croce, che tutti in dojo fanno molto easy.

Del resto, sono dodici kata. Mica cento. Dodici.

E, a te che hai appena iniziato, sembra che tutti facciano più o meno le stesse cose, con la stesa abilità, con la conseguenza che l’assenza di cinture non ti fa capire chi è “bravo” e chi no.

Pratichi quindi con smodato entusiasmo quello che hai capito essere lo iaido, copiando (recte: provando a copiare) quel che vedi fare dagli ottavi dan hanshi sul Tubo, sentendoti – un nukitsuke dopo l’altro – un vero ronin, torvo decapitatore professionale, ma sempre attento a non lasciare pezzi di altrui intestini tenui sulla spada (“corretto chiburi).

“Oh per carità”.

Passano un paio d’anni, prendi il primo dan perché al primo dan ti bocciano giusto se ti parte la spada ed ammazzi un passante, fai qualche gara e prendi pure una medaglia, perché nella tua categoria eravate in sei e agli altri è partita la spada ed hanno ammazzato un passante.

Ti senti arrivato, sai di aver capito tutto. Sei consapevole della tua abilità e, soprattutto, sei certo di essere il migliore del dojo (ma sei modesto ed ammetti che forse dal sesto dan in su ti potrebbero stare alla pari).

E poi, una sera, la Maestra di vede fare Mae e, alzando gli occhi al cielo sconsolata, ti dice “oh per carità” e se ne va scuotendo la testa.

“Oh per carità” a me?

Avrà visto male.

Un evidente caso di scambio di persona.

Diceva a quello dietro.

È stata abbacinata dalla mia evidente capacità nippo-schermistica.

Intende dire che la carità divina mi ha infuso del potere delle antiche scuole.

E invece poi capisci che “Oh per carità” vuol dire, in modo più gentile, elegante ed educato, un’altra cosa: “Albesano, certo che a fare iaido fai proprio schifo”.

Faccio schifo a fare iaido.

Sapete quando vi svegliate la notte e vi ricordate di aver lasciato il portafoglio in macchina, e allora bestemmiate in antichi idiomi e contro divinità ormai dimenticate, e scendete in ciabatte, con il cane che vi guarda mezzo addormentato con quel tipico occhio del “Che fai, pirla?” (è un cane milanese), sperando che non vi abbiano già spaccato il vetro, che ormai signora mia gira certa gente?

Ecco, quell’improvvisa consapevolezza.

Faccio schifo a fare iaido.

Ma schifo davvero. Non tipo “dai, sei bravo per il tuo livello”. Non tipo “ti applichi, ma puoi migliorare”.

Più un “Signora, ha mai pensato che suo figlio potrebbe andare a zappare? Sa, ci servirebbe il suo banco per metterci sopra i cappotti”.

Alcuni dettagli diventano più chiari:

  • ecco perché nelle prove di gara in dojo prendo sempre tre voti contro;
  • ecco perché la Maestra mi dice che “la spada giapponese non è un’ascia da boscaiolo”.

Ecco perché.

L’effetto è immediato: se faccio schifo a fare iaido, allora lo iaido inizia a farmi schifo. È una cosa naturale, tutto sommato, ed ha una logica: (a) incontri un tizio per strada; (b) ti togli il cappello e lo saluti cordialmente; (c) il tizio ti sputa. Chiaro che a quel punto non ti stia più particolarmente simpatico.

Insieme alla crescente reciproca disistima tra lo iaido ed il sottoscritto, cresce però anche una certa qual curiosità: perché faccio schifo?

E dopo un po’ ci arrivi. Fai schifo perché metti nello iaido palate di roba che, con lo iaido, non c’entra niente, tipo:

1. velocità monstre di esecuzione: i western ce lo hanno insegnato, è tutta questione di rapidità di estrazione;
2. forza brutale nei tagli: il nemico ti odia, tu odia il nemico; e fagli tanto, tanto male; la violenza ha sempre una funzione terapeutica;
3. theatrics: quelle cose tipo le facce incazzuse, i kiai interiori, i versi gutturali, gli occhi alla Ken Shiro di “assumi un’espressione triste perché tra poco morirai”.

È come per gli alcolizzati: superi la fase di negazione, ammetti di avere un problema, ti ci metti di impegno per superarlo. Resta da capire come.

E, come sempre, arriva tua moglie a dire la cosa giusta al momento giusto:

“Ma dai, ‘sta roba che fai è una cacata. Sono tre anni che fai sempre le stesse quattro cose, come fai a essere così scemo da non saperle ancora fare?”.

Ma no, amore. Lo iaido è un “do”, non un “jutsu”. È la metafora della perfezione irraggiungibile. È una strada che percorri per la vita. È una crescita interiore. Quando muoio, seppelliscimi sotto un ciliegio alle pendici del Fuji e fai suonare in mio onore “È quasi magia Johnny”.

Però, si sa, le mogli hanno sempre ragione. E quindi?

Se avesse ragione anche in questo caso? Se davvero lo iaido fosse una “cacata” e se fossi davvero scemo io a non averlo ancora capito? Se fossi io ad autosabotare la mia pratica, con una complicazione di sovrastrutture non richieste?

Back to basics, quindi. Resta da capire come fare.

Decido che è come smettere di fumare. Tutti quelli che smettono davvero lo fanno da un giorno all’altro, senza programmi, senza piani di riduzione.

Approccio brutale. Mi piace. Serve solo una pala, metaforica, con cui svuotarmi metaforicamente la testa; una pala, metaforica, di quelle grosse, perché di roba da buttar via ce n’è tanta.

Prima, la velocità.

Questa è mediamente facile: il segreto è – tenetevi forte – andare lenti. Lenti. Lentissimi. Rocket science, davvero.
Nel dubbio, sovracompenso: sono sempre l’ultimo a finire il kata, ed ero sempre il primo. Lo spirito del bradipo mi possiede, senza nemmeno avermi prima invitato a cena.
Al tempo massimo per le gare o per gli esami ci penserò poi: per ora, decido che i fondamentali sono, per l’appunto, fondamentali.

Poi, il teatro.

Mediamente facile anche questo, quando capisci che devi solo eliminare quelle sovrastrutture (ok, siamo onesti: quelle cialtronate) che hai aggiunto al tuo iaido negli anni. Non è nemmeno questione di eliminare il fighting spirit, perché devi cancellare solo l’apparenza inutile e ciarlatana, non la credibilità del combattimento.
Quindi, torni anche qui ai fondamentali: via lo sguardo killer, via i movimenti accessori da film. Facciamo solo quel che c’è scritto sul libretto, e non c’è scritto da nessuna parte che devi sbrasonare.

Resta la forza. E qui sono membri maschili (ho già superato la soglia massima di coprolalia per questo pezzo e temo la censura).

Togliere la forza non mi riesce. Non ce la faccio. Posso andare lento, posso concentrarmi sulle basi, ma non posso eliminare la forza.
Ci avevo già provato, molti anni fa, con il Tai Chi, nel quale mi avevano trascinato gli amici: avevo resistito tre mesi. Roba da pensionati fruttariani.

Ma ora sono maturo. Ora voglio davvero provarci, a fare meno schifo. Mi serve aiuto.

Proviamo con il Maestro dei miei Maestri e vediamo se Ishido Sensei può, virtualmente, darmi una mano.

Trovo i video del suo iaido. Ne guardo un paio e mi fermo: capisco che, per me, non è un modello da copiare.

Prima di essere cacciato dalla CIK, dall’EKF e dalla ZNKR (giù le spade, siate zen!), mi spiego: non posso auspicare di imparare nulla guardando un ottavo dan hanshi, perché il Sensei fa, per così dire, un altro sport. È veloce, trasmette potenza, è credibile in quello che fa: sembra teatrale, ma capisci che non lo è.

Lui è ‘vero’. Lui combatte ‘veramente’.

Ma provare a copiarlo sarebbe un errore. Tornerei a provare ad aggiungere, e incasinerei di nuovo tutto. Tipo che domani decido di mettermi a giocare a calcio e provo a fare le rovesciate guardando i video di Ronaldo. Così passa Messi e mi dice “Oh per carità”. Meglio stare a fare il terzino. E se mi arriva la palla, spazzo in tribuna.

Youtube è il male. Ho ragione quando dico a mia figlia di non guardare troppi video stupidi (e lei mi risponde “A Lola piace i video stupidi”, ma qui vado fuori tema).

Ma Ishido, oltre a praticare, ha anche scritto.

Trovo, sul sito Kiryoku, un suo pezzo, tradotto dall’originale giapponese, con un decalogo di suggerimenti per passare l’esame da ottavo dan.

“1. Sbarazzatevi dei vostri preconcetti e studiate con il cuore di un principiante
2. Studiate e praticate contemporaneamente
3. Perseverate
4. Rinforzate il vostro corpo, non abusatene
5. Siate logici nel porre le vostre domande, se avete bisogno di ricevere istruzioni
6. C’è un inizio per la pratica, ma non una fine
7. Nella pratica esiste solo lo shu, non l’ha né il ri
8. Cercate di assicurarvi che il ragionamento logico e la verità coincidano sempre
9. Assicuratevi che il vostro iai comunichi umiltà e educazione
10. Assicuratevi che il vostro iai esprima un atteggiamento appropriato.”

Qui c’è la risposta.

La devo solo trovare.

– To be continued –

Emanuele Albesano, 2 dan

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