Il saluto è una parte importante della nostra pratica non solo per il suo valore simbolico, ma anche perché esso costituisce un momento in cui è possibile contarsi e, in qualche modo, avere una percezione concreta del cammino percorso.
Mi rendo conto di questo in quanto, da tempo ormai, essendo uno dei V Dan di Iaido più anziani della CIK, mi trovo spesso a dovere condurre il saluto iniziale e finale.
Nel corso dell’ultimo seminario di Muso Shinden Ryu di Torino, ormai arrivato alla sua 18° edizione, ho avvertito questa sensazione in modo particolare.
La lunga fila allineata alla mia sinistra, quasi tutte persone ben conosciute, ma anche qualche volto nuovo, come quel ragazzo spagnolo di A Coruña, con il quale ho scambiato qualche parola sul Camino di Santiago, un altro mio sogno nel cassetto.
Ma, ancora più, mi ha fatto riflettere la fila sempre più nutrita dal lato degli insegnanti, con Carlo Sappino, Marilena Cioni e il suo più recente acquisto, Andrea Cauda.
Come dicevo, proprio in questo momento del saluto si può avere una percezione di quanto la famiglia Kiryoku sia cresciuta sia in termini quantitativi che qualitativi.
Perché se è vero che le file si sono ingrossate con l’arrivo di nuovi praticanti un po’ da tutta Europa, è altrettanto vero che il baricentro del gruppo si è comunque spostato verso l’alto, in quanto un numero consistente di allievi è riuscito a conseguire, nel tempo, il VI e il VII Dan.
Ma, al di là della sia pur legittima affermazione personale, crescere di grado implica anche l’assunzione di una responsabilità sempre più pesante nei confronti del proprio lignaggio e un seminario di Koryu dovrebbe, prima di tutto, essere una presa di coscienza di questa necessità, perché questo non è un seminario come gli altri, un seminario di Seitei aperto a tutti.
Forse, un giorno non troppo lontano, diventerà possibile, anche qui in Europa, conseguire gradi elevati di Iaido senza eseguire alcun Koryu, così come già avviene oggi per il Jodo.
Il Koryu, allora, entrerà nell’ombra e tutte le serie acquisiranno il rango di Okuden (奥伝), la trasmissione (den) della parte interna (oku).
Perché tante sono le possibili varianti di un kata e ogni Maestro ne ha fatta propria qualcuna studiandola infinite volte, modificandola e adattandola alla sua visione di Budo.
Perchè, come più volte ci ha ricordato Renè Sensei, ogni allievo che fa riferimento a quel Maestro non deve fare altro che copiare e proteggere, affinché nulla di questo sapere vada perduto per sempre.
Guardo ancora una volta la fila alla mia sinistra, guardo tutti quelli che, come me, hanno lentamente, faticosamente, risalito la linea della corrente.
Per qualche istante, nei limiti del poco tempo concesso dal Mokuso, guardo dentro me stesso.
Per mia inclinazione personale, sono molto attratto dalle cose nascoste e antiche: quando mi trovo ad osservare un grande albero secolare, immediatamente immagino le sue imponenti radici, sicuramente ancora più secolari del suo tronco e della sua chioma, quasi un albero al contrario, cresciuto in direzione opposta, verso il basso.
Per questo amo anche l’archeologia, amo il latino, che considero il Koryu della nostra lingua italiana.
Tuttavia, benché la freccia del tempo sia orientata inevitabilmente verso il futuro, sembra che la storia proceda molto spesso non per addizioni successive, bensì per semplificazioni, come se, in qualche modo, il genere umano non fosse in grado di sostenere il peso di eredità troppo complesse e pesanti da gestire.
Così, per tornare a noi, è accaduto che molti Koryu si siano estinti, mentre altri sopravvivono ormai solo in parte: antichi saperi cancellati senza rimedio.
Questi pensieri mi scorrono rapidi nella mente in quel tempo contenuto in un Mokuso forse un po’ più lungo del solito.
Come dicevo, io non vivo il passato come un peso e spero che, in questa giornata così particolare, accada lo stesso anche per qualcun altro dei presenti.
Mokuso Yame.
Stefano Banti