… si dice non si scordi mai.

Si parte, Torino Parigi, Parigi Tokyo, il viaggio è oggettivamente lungo, ma tutto sommato, scorre velocemente tra film, musica e sonnellini.

Si arriva la mattina alle 9:30 ora locale. Se vogliamo risentire il meno possibile del jet lag, non dobbiamo cedere al sonno prima delle 21/22:00 ora locale. 

Non sarà facile, ma ci si può fare, tanto più che Danielle e Claudio, dopo un passaggio in albergo a Kawasaki, per lasciare i bagagli, ci portano a Tokyo al tempio di Asakusa dove giriamo tra bancarelle piene di omamori e bancarelle di street food dove ustionarsi con dei deliziosi takoyaki.

Sembra strano, ma ad un certo punto si riesce a sublimare la stanchezza, ed a goderci ancora la serata.

“Anche le cose facili all’inizio sono difficili.”

(Ishido Shizufumi Sensei)

Lunedì, 9:15, si parte per la prima giornata di pratica, ne seguiranno altre cinque per un totale di 28 ore e mezza, quasi tutte passate da noi cinque: Danielle, Claudio, Marilena, Alessio ed io, a tu per tu col Maestro, “lezioni private” dal valore immenso.

Ho qualche problema con un ginocchio e temo un cedimento fisico, ma il solo pensiero di risparmiarmi mi irrita, per cui cerco di dare il massimo e di fare del mio meglio, magari cercando di alternare la pratica a terra con quella in piedi.

Ishido Sensei

Entrare nel dojo del Maestro Ishido Shizufumi è stato indubbiamente emozionante. 

Il Maestro ci attende, il tea già pronto solo da versare nelle tazze.

Le mattinate scorrono piacevoli, la pratica è libera, ma il Maestro ci ha suggerito di dedicarci a seitei e praticare il ko-ryu al pomeriggio, così facciamo. Tra correzioni e spiegazioni si fa mezzogiorno, si allestisce un tavolo e mentre il Maestro prepara il tea, si distribuiscono i bento.

Si mangia veloci e resta sempre un po’ di tempo per esplorare il dojo, per osservare con attenzione quanto vi è conservato.

Può sembrare retorico o anche banale, ma li dentro veramente si respira la storia del budo.

Alle pareti, jo, bokutò, yari, mokuju (il fucile di legno per la pratica del jukendo, la via della baionetta), tutte armi appartenute al padre del Maestro che mostrano tutta la loro età.

Proprio di fronte ai due vecchi mokuju, mi rendo pienamente conto di essere al cospetto di quella genealogia che collega il Maestro direttamente a Nakayama Hakudo, padre del Muso Shinden, che fu anche istruttore presso l’Accademia Militare Toyama a Tokyo dove la pratica del jukendo fu perfezionata.

Kiryoku SGT in Giappone

In questo contesto, Rei Ho assume veramente tutto un altro aspetto, si sente veramente la necessità di dare contenuto a quei gesti che magari prima consideravo solo formali. Per cui il saluto a Kamiza, il saluto al Maestro e quello alla spada divengono passaggi fondamentali della pratica, diventano per me un’espressione che travalica la semplice forma di rispetto per trasformarsi in un gesto di profonda empatia col luogo, con le persone e con la pratica stessa.

Questo è un aspetto che coltiverò con cura anche dopo il rientro.

“C’è sempre un posto dove sviluppare qualsiasi abilità.”

(Ishido Shizufumi Sensei)

Praticare per ore sotto lo sguardo del maestro, che a volte da segni di apprezzamento per ciò che vede, ma più spesso interviene con suggerimenti e correzioni, è veramente un privilegio. 

Sarebbe pleonastico andare oltre, su questo tema posso solo esprimere grande gratitudine per ciò che ho ricevuto dal Maestro e per chi ha reso possibile ciò.

A volte nelle spiegazioni ho percepito la grandezza della conoscenza del Maestro, restandone affascinato, ma anche sconcertato nel comprendere che solo per una infinitesima, microscopica parte la potrò raggiungere.

Carlo Sappino in Giappone

Sono arrivato a chiedermi che senso avesse continuare a praticare nella consapevolezza che mai  si potranno acquisire certe conoscenze, ma è stato un pensiero subito accantonato poiché la generosità assoluta del Maestro nel cercare di trasmettermi qualcosa del suo sapere non poteva che essere ricambiata con un sincero impegno a studiare e progredire senza pensare a dove si potrà arrivare, cercando solo di fare del proprio meglio. Pensare che la Via non ha fine, che non ci sarà un traguardo nel nostro avanzare, pur essendo pensiero già noto, ha assunto così un connotato diverso, più profondo e, certamente, mi ha dato maggior consapevolezza della mia pratica.

Per il resto, quando eravamo fuori dal dojo, si macinavano chilometri. Così ho visto cose affascinanti: dal Santuario Meiji a Shibuya, al Tempio Honmonji ad Ikegami, dalla splendida vista della megalopoli dal tetto dello Shibuya Sky, al castello di Odawara, al grande Buddha di Kamakura.

Ed ho potuto assaggiare i piatti tipici della tradizione dal sushi ai tako yaki passando per l’okonomi yaki, il soba, gli udon, il ramen e così via.

Il ritorno mi è sembrato più veloce dell’andata alle 9:30 del 3 febbraio, non senza qualche peripezia a causa del vento, siamo atterrati a Caselle.

Una splendida esperienza vissuta in un paese che ho percepito estremamente diverso, e per questo affascinante, dalle realtà europee a me note, un paese dove nella quasi assenza di verde si alternano grattacieli e casette a due piani, un paese dove la rete ti raggiunge anche nelle gallerie della metro, ma i cavi elettrici e del telefono corrono lungo le vie su pali di cemento, un paese dov’è vietato fumare per strada, ma lo si può fare in quasi tutti i locali pubblici. 

Carlo Sappino, 6 dan

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