Siamo alle solite: indossiamo un kimono, abbiamo una katana in mano, cerchiamo di imparare dei movimenti e a guidarci è una tradizione antichissima, appartenente ad un popolo il cui contesto culturale è totalmente diverso dal nostro. Cerchiamo di esplorare orizzonti di pensiero lontani, navigando in acque sconosciute con tecniche e strumenti condizionati da ciò che siamo e dove lo siamo diventati. Quante volte ci è capitato di sentirci suggerire di non pensare, di svuotare la mente per essere davvero “presenti”? Non ritengo, personalmente, che sia impossibile, ma dobbiamo essere consapevoli che non si tratta di una sfida facile.
La domanda fondamentale è: come conciliare la coscienza intuitiva, non-riflessiva, coltivata in Giappone, con la logica e la coscienza riflessiva caratterizzanti la filosofia europea?
La nostra mancanza di umiltà nei confronti del sistema filosofico giapponese non è dovuta ad una prospettiva etnocentrica: semplicemente, attribuiamo a termini simili significati profondamente diversi. Il problema nasce già con la fondazione della nostra concezione del mondo. In partenza abbiamo due filoni di pensiero: essere e nulla. In Europa siamo abituati a pensare il nulla in termini di non essere, riassumendo la negazione dell’essere nell’essere, elevando l’essere al livello assoluto. In parole semplici, abbiamo un binomo essenziale, ciò che è e ciò che non è. Ma quel che in Giappone si intende per nulla, non è mera mancanza di essere, piuttosto un autentico sé che non può essere oggettivato, non ammette predicazioni, è lo status quo della creazione. Un orientamento che vede il nulla come qualcosa di più della negazione dell’essere e realizza l’ultima origine del nulla in un livello più alto di negazione che non è né non è.
La filosofia in Giappone si sviluppa molto tardi. Una delle prime accuse che, tramite i fondatori della Scuola di Kyoto, formulerà nei confronti della filosofia europea, è che da Parmenide a Hegel parla di nulla pensando l’essere, ignorando il vero nulla buddhista, al contempo vuoto assoluto e assoluta, positiva pienezza. Il vuoto assoluto, raggiungibile mediante uno svuotamento di sé stessi nella meditazione profonda, solo il vuoto, può accogliere in sé tutto ciò che è. È un nulla che non si comprende, si può solo cogliere.
Nishida spiegava il concetto in modo particolarmente poetico: riteneva che il perimetro del pensiero greco (nel quale non a torto individuava la culla di ciò che oggi abbiamo costruito in Europa) fosse il cielo stellato, in un mondo ordinato dove tutto ha una forma e il nulla è solo il limite più oscuro dell’essere. Le cose cambiarono con l’avvento del cristianesimo, il cui orizzonte infinito ed eterno è però orientato escatologicamente, non qui ed ora, in ogni cosa.
Il punto è che non è proprio del modo di sentire giapponese uno sfondo metafisico lontano dalle cose visibili in primo piano. Lo spirito giapponese non è fondato su un ideale di comportamento conforme all’universo, come quello cinese. Löwith racconta nei suoi scritti d’aver ricevuto un dono da Nishida, poco prima di lasciare il Giappone. Si trattava di un disegno a inchiostro, eseguito di suo pugno. Raffigurava su carta bianca un cerchio nero, con a fianco i caratteri luna e solitudine, cerchio, luce, diecimila cose, inghiottire. Il significato è intuibile: un essere che sia diventato perfetto e vuoto, può illuminare l’esistente con la luce pallida della luna, lasciando che tutto entri in sé.
Praticare un’arte marziale giapponese non rappresenta una sfida solo dal punto di vista fisico, ma anche e soprattutto per la nostra mente. Siamo privilegiati: possiamo confrontarci con un sistema di pensiero completamente diverso dal nostro, in grado di donarci infinite prospettive su noi stessi, sulla nostra storia e su ciò che ci circonda.
Chiara Bonacina, 3 dan