«L’uomo che sa, usa la spada, ma non uccide altri uomini. Usa la spada e dà agli altri la vita. Uccide solo quando è necessario. Quando è necessario dà la vita. Quando uccide lo fa con assoluta concentrazione, così come quando dà la vita. Senza pensare al bene o al male, egli è capace di vedere il bene e il male; senza provare a discriminare, egli è capace di discriminare bene. Camminare sull’acqua è come camminare sulla terraferma, e camminare sulla terraferma è proprio come camminare sull’acqua. Se è capace di far sua questa libertà, non sarà confuso da nessuno al mondo.» 

Takuan Sōhō, Taiaki, in W. S. Wilson (a cura di), Takuan Sōhō. Lo Zen e l’arte della spada, traduzione italiana a cura di P. Gonnella, Mondadori, Milano 2001, p. 103-104. [ed. or: The
Unfettered Mind, Kodansha International Ltd., Tokyo 1986.]

Questo è forse uno dei passaggi più famosi dell’opera di Takuan Sōhō ma probabilmente lo è per i motivi sbagliati. Ad una prima lettura di questo testo siamo colpiti e affascinati all’idea di una sorta di super-uomo che pur possedendo il potere di uccidere decide piuttosto di “dare la vita” mediante l’uso della propria spada. Un afflato romantico ed eco nietzschiane si fanno largo nel cuore del lettore occidentale fino a proiettare un’immagine del tutto deformata del senso di questa pagina del Taiaki. 

Alla luce della premessa che porta l’autore a dichiarare che “l’uomo che sa”, ovvero il maestro di arti marziali, “uccide solo quando è necessario”, ci si potrebbe anche legittimamente chiedere quando dovrebbe essere “necessario” uccidere qualcuno, e scoprire facilmente che le risposte che daremmo sarebbero assai diverse da quelle immaginate dall’autore del detto. Credo sia importante tenere a mente come lo scopo e il contesto in cui queste pagine sono state scritte davvero siano lontani dal mondo in cui oggi siamo chiamati a vivere e praticare arti marziali, sia in Europa che in Giappone. Questo discorso naturalmente non ha soltanto a che vedere con più ampie questioni di etica, ma anche e soprattutto con la comprensione responsabile di una distanza culturale che non si dovrebbe mai dimenticare nell’approccio a questo tipo di produzione letteraria, soprattutto se si è praticanti di arti o meglio, discipline, marziali.  

Tornando al testo, certo chiunque abbia praticato un po’ di iaidō conosce l’espressione saya no uchi, “vincere con la spada nel fodero”, come riferita a quella condizione di profonda presenza spirituale che inibisce e scoraggia qualunque azione ostile verso chi la esercita, senza nemmeno bisogno di movimenti o dichiarazioni di minaccia, senza bisogno di uccidere. Il detto del maestro di Azushi parla effettivamente di questo, cioè di una sorta di controllo spontaneo della situazione di combattimento. Il “dare la vita” si riferisce alla capacità di suscitare autonomamente il movimento nell’altro, far sì che sia l’avversario a fare la prima mossa, rompendo la sua quiete e quindi assecondando la volontà, indistinguibile dai propri atti, del maestro di arti marziali. 

Ancora una volta, Takuan Sōhō sta parlando della condizione di chi abbia raggiunto lo stato di illuminazione in riferimento alla condizione marziale. Come uno specchio riflette con nitidezza le immagini senza aver bisogno di pensarle, di analizzarle e dunque anche di giudicarle, così nell’azione il maestro è spogliato della capacità di analisi, pur distinguendo con assoluta chiarezza la realtà e la risposta più appropriata nei confronti di essa. In ultima analisi, questo significa lasciare l’alveo delle possibilità per aderire completamente alla necessità come condizione di piena libertà. 

Ma allora che senso ha paragonare il camminare sulla terraferma con il camminare sulle acque? Più che a fuorvianti paragoni evangelici, in questo detto occorre invece riflettere sulla condizione del maestro, in tutto e per tutto identificata con quella del Buddha Sakyāmuni, come quella di colui che non deve porsi il problema del fondo del come camminare sull’una o sull’altra superficie. Scrive lo stesso autore: «Il significato di questa affermazione non sarà mai compreso da colui che non abbia ricevuto l’illuminazione a proposito della vera origine della specie umana. Se lo sciocco calpesta la terra come calpesta l’acqua, quando cammina sulla terra cadrà in avanti con la faccia. Se calpesta l’acqua come calpesta la terra, quando veramente calpesterà l’acqua crederà di poter camminare sulla sua superficie. L’uomo che dimentica sia la terra che l’acqua dovrebbe arrivare a comprenderne il principio per la prima volta». 

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