Tetzuzan, nella sua vecchiaia, insegnava: «Un tempo pensavo che nel judo, a differenza del sumo, bastasse vincere alla fine, anche se all’inizio si soccombe all’avversario, ma ora ho cambiato parere. Se cadi sotto l’avversario all’inizio, finisci col perdere, se prevali all’inizio, vincerai alla fine»
Yamamoto Tsunetomo, Hagakure I, 84 (trad. it L. Soletta)
Quando ho letto questa massima del generale Tetzuzan Oki Gonzaemon, non ho potuto fare a meno di pensare a quante volte, nella pratica dello iaido, tendiamo a sottovalutare le fasi iniziali, la preparazione di una qualunque azione.
Naturalmente, mi rendo benissimo conto della diversità di un combattimento a mani nude rispetto ad uno scontro di spada: il margine di tollerabilità di un errore è verosimilmente più alto nel primo caso rispetto al secondo.
Tuttavia, ho l’impressione che, al di là della disciplina a cui si fa riferimento, il centro di questo pensiero sul prevalere all’inizio o alla fine abbia a che vedere più con un’impostazione di base della nostra attitudine allo scontro, più che con una strategia o una retorica.
Sarà che sono moltissimi i casi nella narrativa occidentale in cui il protagonista di una storia parte con il piede sbagliato per poi sorprenderci con una vittoria quasi disperata; e tutto sommato ci piace pensare che possa essere così, che anche davanti ad una situazione difficile, pesante e apparentemente al di fuori delle nostre possibilità, si dia lo spazio di un riscatto, di una vittoria
ancora più bella perché improbabile.
Tutto questo ha a che vedere con la speranza, di cui forse ora più che mai abbiamo bisogno. Del resto, in questo caso non possiamo valutare la pratica marziale alla luce di questo, seppur nobile, paradigma.
In un combattimento, l’inizio è decisivo. Quante volte ci è capitato di dover eseguire un kata e di sentire la fatidica parola yame pronunciata dai nostri sensei appena dopo esserci seduti in seiza?
Personalmente, molte volte.
Il punto è che quando si affronta un avversario, lo si fa dall’inizio. Sarà una constatazione banale, ma nel caso di un incontro di spada, se si viene colpiti dall’avversario all’inizio, di sicuro non si arriverà alla fine.
È chiaro, ciascuno di noi commette errori, e fortunatamente non ci giochiamo la vita ogni volta che estraiamo la spada; qui però il punto non sta nel non commettere errori, ma nel porre attenzione, nel pensare, cioè, che il momento decisivo del kata non consiste nel taglio o nell’azione dinamica più appariscente, ma proprio nella loro preparazione.
A partire da questo cambio di mentalità, cui il generale Tetzuzan è giunto dopo molti anni di pratica marziale, ho l’impressione che si possano dischiudere ulteriori possibilità di crescita nella pratica, e perché no, anche nella vita di tutti i giorni.
Sono sempre più persuaso del fatto che questo tipo di attenzione ancorata al momento, essenziale perché non idealizzata, sia la chiave per comprendere il concetto di presenza di spirito.