Nell’ambito delle discipline da noi studiate, esiste una pratica la cui storia, veramente singolare, merita di essere raccontata: mi riferisco al Tanjōjutsu, un metodo che, pur essendo un’elaborazione moderna (Gendai budo), è entrato direttamente a fare parte del repertorio tecnico di un koryū vecchio di secoli.

Ideatore di questo sistema fu Uchida Ryōgorō (1837-1921), personaggio poliedrico con un grande talento per le arti marziali tradizionali ma anche, come vedremo, incline alla sperimentazione di nuove tecniche.

Introdotto in giovane età dal padre allo studio dello Shindō Musō Ryū jōjutsu, Ryōgorō si applicò con profitto anche in altri ambiti, quali l’Ono-ha Itto- Ryū kenjutsu e il Kyūshin-Ryū Jujutsu, raggiungendo in tutti, a quanto sembra, il livello di Menkyo Kaiden, la licenza di pieno insegnamento.

In quegli anni, il Giappone stava attraversando un periodo di profondi sconvolgimenti legati alla restaurazione Meiji per cui, dopo secoli di dominio degli shōgun, il potere effettivo veniva riconsegnato all’autorità imperiale.

La dissoluzione dello shōgunato ebbe pesantissime conseguenze per la classe dei samurai, che si ritrovarono spogliati dei propri privilegi, privati del diritto di indossare il daishō (la coppia di spade), impoveriti a causa della soppressione del sistema feudale;
molti Ryū tradizionali, perdendo l’appoggio dei vari Daimyō locali, finirono per scomparire.

Fu in questo mutato contesto che, intorno al 1880, Ryōgorō decise di lasciare il nativo Kyūshū per trasferirsi a Tokyo, probabilmente in cerca di migliore fortuna per sé e per le proprie arti.

Qui Ryōgorō trovò una realtà in grande fermento: erano infatti gli anni in cui si stava consumando il passaggio dal bujutsu classico al budo moderno.

Stimati maestri di spada come Sakakibara Kenkichi (1830-1894) si stavano adoperando per promuovere la diffusione del Gekiken jutsu (dimostrazioni di combattimento pieno con armatura e shinai), poi divenuto Kendo, come mezzo per favorire lo sviluppo fisico e mentale della gioventù, ma anche la conservazione degli antichi valori.

A propria volta, Jigorō Kanō (1860-1938), praticante di vari stili tradizionali di jūjutsu, aveva fondato nel 1882 il Kōdōkan, una scuola dove si praticava il Jūdo, una disciplina dalle origini antiche ma con finalità principalmente educative.

La decisione di avviare la modernizzazione dell’esercito mutuando le nuove tecniche militari occidentali aveva anche portato all’invio, da parte della Francia e della Germania, di una serie di missioni militari composte da istruttori esperti aventi il compito di addestrare la nascente fanteria imperiale.

Questi contatti furono particolarmente fecondi per tutte le parti coinvolte: alcuni ufficiali francesi si accostarono allo Jikishinkage-ryū di Sakakibara Kenkichi, diventando così i precursori della pratica di kenjutsu in Europa, mentre in Giappone si andò sviluppando il jūkenjutsu, una disciplina affatto nuova che vedeva applicate alla baionetta le tecniche del sōjutsu, l’arte della lancia.

Ryōgorō iniziò ad insegnare Shindō Musō Ryū jōjutsu riscuotendo un certo successo, al punto che, tra i suoi allievi, figuravano personaggi di primissimo piano quali Nakayama Hakudō, fondatore del Musō Shinden-ryū; tuttavia, le nuove tendenze in atto nella capitale non erano certo destinate a passare inosservate al suo occhio attento.

In realtà, lo Shindō Musō Ryū si era già dimostrato, con l’inclusione, alla fine del XVII secolo, del Jittejutsu e dell’Hojōjutsu, di essere una scuola eclettica capace di assorbire, pur restando nell’alveo della tradizione, tecniche ritenute funzionali alla propria vocazione di disciplina prevalentemente destinata alle forze di polizia.

Dopo secoli di isolazionismo imposto dallo shōgunato Tokugawa, l’accelerata modernizzazione del paese intrapresa dal giovane imperatore Mutsuhito stava attirando gli interessi degli investitori occidentali, per cui non era più raro incontrare per le vie di Tokyo, la nuova capitale, stranieri provenienti da ogni parte del mondo.

Gli stessi esponenti dell’establishment, sempre più spesso educati all’estero, esibivano abiti di foggia occidentale, bombetta e bastone da passeggio come segni di distinzione rispetto ai costumi tradizionali, ritenuti ormai simbolo di un passato da dimenticare.

L’attenzione di Ryōgorō fu attirata proprio dal bastone da passeggio, un innocuo oggetto di uso quotidiano capace di trasformarsi in un’efficace strumento di autodifesa.

In piena autonomia, egli iniziò ad elaborare una serie di tecniche inglobandole nel suo sistema di riferimento, il jōjutsu, che vedeva appunto l’arma di riferimento tipicamente opposta al bokken.

La nuova disciplina fu da lui stesso inizialmente denominata Sutteki-jutsu, coniando così un curioso neologismo nato dalla giapponesizzazione del termine inglese “stick”, cioè bastone; più tardi, tuttavia, essa prese il nome ufficiale di Tanjōjutsu, ovvero “arte del bastone corto” (tan = corto).

La linea tracciata da Ryōgorō fu successivamente sviluppata dal figlio Ryōhei Uchida (1873-1937), anch’egli cultore di arti marziali tradizionali, anche se divenuto più celebre per le sue convinzioni ultranazionaliste, perfettamente in linea con il nascente espansionismo giapponese di fine secolo.

Tra una spedizione e l’altra in Corea e Manciuria, Ryōhei trovò anche il tempo di partecipare a quel processo di codificazione in atto agli inizi del ‘900 volto alla creazione di uno standard nazionale per le varie arti marziali tradizionali: fu così che, dopo varie consultazioni, la commissione da lui presieduta arrivò alla codificazione di quei 12 kata che, assunto il nome definitivo di Uchida-Ryū Tanjōjutsu, vengono oggi studiati dai praticanti di Shindō Musō Ryū jōjutsu.

In quell’occasione, vennero anche fissate le misure standard dell’arma, in precedenza dipendenti dalla statura di chi lo utilizzava: lunghezza pari a 90 cm (3 Shaku), sezione pari a 2,8 cm (9 Bu).

Si veniva così a creare la situazione, alquanto singolare, di una scuola moderna superata, dopo pochi anni, da una sua rielaborazione standardizzata, a sua volta direttamente inserita nel contesto di un koryū vecchio di quattro secoli.

Dal punto di vista tecnico, il Tanjōjutsu risente largamente del Jō, sia nel modo di impugnare l’arma – che prevede alternativamente la presa dritta (Honte) o rovesciata (Gyakute) – sia nel modo di fronteggiare il tachi, con tecniche sul polso di Uchidachi (mutuate da Tsuki Zue e Monomi), atemi portati alla tempia (sulla falsariga di Shamen) o d’incontro (analogamente a Suigetsu).

Una caratteristica del Tanjōjutsu è la specularità, per cui, a parità di attacco del tachi, i kata spesso si differenziano tra loro unicamente per il lato dove viene portato l’atemi: così, ad esempio, il primo e il secondo kata prendono rispettivamente il nome di Kote Uchi Hidari e Kote Uchi Migi appunto perché nel primo caso viene colpito il polso sinistro, nel secondo il destro.

Ushiro dzue (後杖) kata num. 5 - Uchida-ryū Tanjō
Ushiro dzue (後杖) kata num. 5 – Uchida-ryū Tanjō

Per concludere, vorrei fare alcune considerazioni sul valore aggiunto che il praticante di Jōdo può ricavare dallo studio del Tanjōjutsu.

Nelle arti marziali, uno degli aspetti strategici fondamentali è dato dalla distanza di combattimento, fattore in larga misura legato al tipo di armi utilizzate: per questo motivo, al fine di preparare i propri allievi ad ogni evenienza, le scuole tradizionali introducevano nel proprio percorso di formazione l’utilizzo di armi di varia lunghezza.

Per fare un esempio, nel Katori Shintō-Ryū la progressione di studio prevede che l’arma di riferimento – la spada – si confronti con il Bo (bastone di circa 180 cm), la Naginata (alabarda) e lo Yari (lancia).

Lo Shindō Musō Ryū non sfugge a questa logica: concepito come arte del Jō contrapposto alla spada, educa appunto a fare buon uso della maggiore lunghezza del bastone per compensare la pericolosità di una lama affilata.

Tuttavia, diversi kata prevedono che Uchidachi impugni il Kodachi, arma più corta ma insidiosa in quanto, essendo maneggiata con una sola mano, è in grado di portare attacchi molto veloci, senza contare che la minore lunghezza della lama viene compensata dalla posizione del corpo (Hanmi anziché frontale).

In quest’ottica, il Tanjōjutsu costituisce un ulteriore ampliamento dello scenario strategico in quanto, per contrastare il tachi, Shidachi dispone ora di un’arma più corta del consueto, che deve maneggiare con una sola mano: qui, evidentemente, la velocità di esecuzione, oltre alla corretta valutazione del tempo e della distanza (ma-ai), giocano un ruolo fondamentale.

Resta, infine, il puro piacere estetico di una pratica elegante, sicuramente ibrida ed eclettica rispetto alle consuete discipline tradizionali ma, non per questo, meno ricca di contenuti e di spunti di studio.

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