Ideato a seconda del tipo di lavoro che uno fa, c’è l’abito semplice e quello raffinato, quello colorato e quello ricamato, ciascuno con l’uso che gli è proprio. E se non li usi in modo corretto, anche la tua mente ne resterà squilibrata. Quando ti vesti in modo informale, la mente sarà di conseguenza rilassata, mentre se indossi un abito da cerimonia sarà controllata e all’erta. Quindi scegliere la qualità, il modello e la stoffa secondo le caratteristiche proprie dell’abito nutrirà in modo naturale il tuo umore.

Yamaga Soko (1622-1685), in T. Cleary (ed), Training the Samurai Mind: a Bushido Sourcebook, Shambala, Boston (MA) 2008. [ed. italiana: La mente del Samurai, Mondadori, Milano 2009, p. 62-63]

Ricordo che qualche anno fa, ad uno stage di iaido tenuto dal maestro Van Amersfoort, fui colpito da un episodio. Poco dopo l’inizio dell’allenamento, al manifestarsi di qualche imprecisione nell’esecuzione dei nostri kata, il maestro ci fermò e tenne un discorso sull’importanza del cambiamento nella propria pratica. Per farlo, chiese ad uno dei partecipanti da quanto tempo praticasse, indicando il suo gi, tipicamente da kendo, evidentemente consunto e scolorito. Il rimprovero non era fine a se stesso. Il maestro spese diverse parole sul fatto che il nostro cambiamento e miglioramento passa anche attraverso il modo in cui ci vestiamo. Questo mi sorprese, essenzialmente per due ragioni.

La prima è che nella nostra mentalità attuale, post-moderna, il tema dell’abito va di pari passo con quello della costruzione autonoma dell’identità. In altre parole, tendiamo a ritenere che il modo in cui ci presentiamo agli altri riguardi in ultima analisi il nostro rapporto con noi stessi, e solo in misura minore quello con le altre persone. Anticonformismo e originalità sono da qualche decennio considerati un valore positivo in occidente, segno di emancipazione e libertà di pensiero. Per questa ragione, criticare qualcuno per il suo modo di vestire è tendenzialmente considerato un’azione fuori luogo e piuttosto sgarbata, se non in casi di grande familiarità con le persone cui ci rivolgiamo.

La seconda ragione è diversa dalla prima, anche se in qualche misura conferma le affermazioni precedenti. Io ho iniziato ad approcciarmi al mondo della spada attraverso il kendo, e ricordo distintamente, quando iniziai, una certa forma di invidia nei confronti di senpai e praticanti con più esperienza di me, i quali sfoggiavano dei vecchi gi, consunti e scoloriti, quasi come un segno dell’abnegazione nella pratica e dell’impegno negli allenamenti. In quel contesto, avere un gi appena uscito dalla scatola mi identificava come un principiante, e, un po’ stupidamente, non mi piaceva.

Questa seconda ragione sembra assai diversa dalla prima, perché laddove nel primo caso alla base del ragionamento vi è un principio di ostentazione individualista, in questo secondo caso sembra piuttosto che si tratti quasi di una volontà ascetica che mortifica le apparenze per rafforzare il valore interiore del praticante. In realtà però, anche questo atteggiamento è molto occidentale, e tradisce un’interpretazione fondata su elementi di pensiero non giapponese.

Il Giappone, almeno nella sua modernità, ama le divise e l’uniformità come principio di ordine. Nel dojo tutti siamo vestiti allo stesso modo, anche se si può riconoscere il pregio di un abito rispetto ad un altro. Non si tratta necessariamente di una questione di soldi, ma senza dubbio tutto questo discorso ha a che vedere con la cura con cui ci presentiamo gli uni verso gli altri. Se è vero che il detto di Yamaga Soko si applica benissimo anche alle logiche occidentali, dal momento che nessuno vuole sentirsi a disagio nel vestire un dato abito, dall’altro lato emerge come il focus della sua logica non stia nella semplice auto-percezione in base a ciò che si indossa, bensì alla modalità relazionale che questo implica. L’abbigliamento, in altre parole, è implicato dal suo contesto e in relazione ad altre persone. Per questa ragione, sin dagli esami di grado più bassi è richiesta la corretta gestione del proprio vestiario, dal momento che la cura della propria esteriorità è un centro di comprensione del nostro essere in relazione con gli altri praticanti lungo la Via.

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