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Questo mese il team Kiryoku si è spostato oltralpe verso la regione dell’Occitania per incontrare una figura di spicco dello Iaido francese ed europeo, Jean Jaques Sauvage, Iaido 7° dan Kyoshi e Kendo 5° dan. Dai primi passi nel Judo ai massimi gradi della spada, è un piacere poter ascoltare la profondità dei suoi pensieri sui temi tipici riguardanti la storia, lo sviluppo e la visione personale delle nostre discipline, in una corsa a rotta di collo attraverso dettagli e aneddoti di un sensei che ha cuore più la consapevolezza del poter donare e trasmettere che non quella di uno status all’interno di un dojo, con una conoscenza che deriva dall’aver approfondito i dettagli della Via con la calma e il supporto delle molte figure che lo hanno accompagnato lungo il suo percorso di crescita.
Sauvage sensei, come sempre è un onore per Kiryoku poter approfittare del tempo di figure come la sua, e poter apprendere direttamente dai pionieri dell’arte della spada i pensieri e gli insegnamenti frutto di una vita di apprendimento.
Partiamo ovviamente dall’inizio con qualche nota biografica per inquadrare al meglio la sua figura anche per coloro che non la conoscessero ancora.
Sono nato il 9 dicembre 1947 a Lisieux in Normandia, Francia. Mi sono trasferito a Versailles dove sono stato dal 1975 al 2005 e non avendo mai saputo resistere al richiamo del sole, adesso vivo nel sud della Francia, vicino a Narbonne.
Ora sono in pensione, ma sono stato insegnante di educazione fisica e di Judo, e per quanto riguarda la spada ho conseguito i gradi di Iaido Kyoshi 7° dan, Kendo 5° dan e Chanbara 5° dan.
Avendo trascorso un’intera vita con le arti marziali, avrà sicuramente avuto modo di apprendere e lavorare al fianco di molti sensei: quali sono le figure a cui deve maggiormente un riconoscimento per aver contribuito alla sua crescita personale e perché?
Ritengo di dover esprimere la mia più profonda gratitudine e il mio infinito rispetto a Jean Pilorge, il mio maestro di Judo (dal 1966 al 1974) che mi ha ispirato sotto diversi punti di vista attraverso i suoi insegnamenti riguardo all’audacia a dispetto di ostacoli e pericoli e nel credere nella nostra audacia per osare di essere se stessi, oltre al fatto che non sia necessario sperare per intraprendere qualcosa, né avere successo per perseverare. I suoi insegnamenti puntavano sul fatto che i maggiori sforzi dell’uomo per superare se stesso sono vani se, al di là di se stesso, cercasse ancora se stesso, e non una realtà superiore.
Successivamente, lo studio di Kime No Kata per il Certificato di Stato di insegnante di judo, che ho ottenuto nel 1971-72 presso il CREPS di Houlgate in Normandia, mi ha avvicinato alla spada giapponese e successivamente un corso base di Kendo e di Iaido, condotto da Jacky Vauthrin a Lisieux nel 1973, ha stimolato la mia curiosità verso queste discipline.
Nel periodo 1975-1979, il mio secondo insegnante di Judo a Versailles, Roland Degorce, mi ha obbligato a richiamare alla mente rigore, pazienza, bellezza ed efficienza della forma, umiltà con costanza, coraggio e perseveranza, così come saper aspettare per maturare, correggersi, recuperare e stimolare l’entusiasmo per ciò che resta nascosto o ignorato, così come a sopportare l’iniquità.
E ancora la brillante cultura e la fiducia del fratello Pantel, direttore del Collegio Saint Nicolas di Igny, mi hanno aiutato a costruire la mia personalità, mentre negli anni molti altri esperti di kendo e praticanti di Iaido, distaccati dallo ZNKR, come Hiroyuki Shioiri sensei nel 1977-78, Mineo Nakayama sensei nel 1979-80, Nobuo Hirakawa sensei 1980-81, Itsuo Naito sensei 1985-86, Mutsunori Ishiyama sensei 1990-91, Makoto Higashiyama 1993-94 e i diversi seminari estivi in Giappone con Kitamoto sensei e Seitama sensei mi hanno accompagnato lungo tutta la mia crescita fino a quando la storia ha preso forma.
Ci sono state davvero molte persone sul suo percorso di crescita, ed è bello apprendere come ognuna abbia lasciato un segno caratteristico sul suo percorso. Sono passati ormai una cinquantina d’anni da quando si è avvicinato per la prima volta all’arte della spada, un arco di tempo significativamente ampio per poter parlare delle differenze con i tempi attuali e di come fosse l’ambiente francese all’inizio: ci vuole raccontare qualcosa di quell’epoca in cui era tutto da costruire?
Prima del 1993 lo iaido francese era un’organizzazione simile a quella dei clan. In quell’epoca c’era una febbrile voglia di novità anche se non si sapeva esattamente cosa si volesse se non il desiderio di qualcosa di diverso. Con la volontà di riuscire al meglio profondamente radicato in me insieme al desiderio di riuscire ad interessare i praticanti, attraverso diverse azioni innovative ho federato lo iaido francese aumentandone i membri da 400 a 1930.
Per ripagare la pazienza dei molti praticanti impazienti di apprendere, ho cominciato ad organizzare i primi corsi nazionali seguiti dalle delegazioni giapponesi. Successivamente ho creato la Commissione Didattica e il relativo BFEI (Certificato Francese per l’Insegnamento dello Iaido), un gruppo nazionale accessibile a tutti per creare una squadra francese ed infine anche la Commissione Arbitraggio.
Ho adempiuto ai miei doveri morali diventando prima insegnante, e poi formatore, esaminatore, agonista, selezionatore, DTR (Direttore Tecnico Regionale) a Yvelines, Languedoc Roussillon e nella regione PACA, e ancora DTN (Direttore Tecnico Nazionale) dal 2001 al 2006, ed infine arbitro di Kendo, Iaido e sport Chanbara, giurato d’esame per i gradi regionali, nazionali ed europei.
Impressionante e oserei dire che sia stato inarrestabile nello sviluppare questa disciplina a livello nazionale, e non solo: una passione così forte deve necessariamente avere una spinta propulsiva fuori dall’ordinario. Cosa significa per lei lo Iaido e cosa le offre?
Iaido e Kendo mi hanno rivelato la nobiltà del gesto più che il potere delle parole. Con la passione ho cercato di trovare, con la sincerità ho cercato di capire, e ho osato condividere le risorse nel tempo.
Ho preso le parole della tradizione e della leggenda che mi hanno maggiormente ispirato, non per imprimervi il mio segno ma per poterne toccare la pienezza, la purezza e la bellezza. Non voglio imporre la mia verità, anzi cerco solo di illuminarla per percepire che i gesti di Iaido e Kendo vanno ben oltre l’estetica: si tratta sempre di equilibrio tra assenza di peso e leggerezza, tra potenza e fragilità, tra dentro e fuori. Proprio perché la sua forma non è mai concretamente definitiva, questa è il frutto di una ricerca permanente, di un ideale di perfezione proprio dell’arte marziale.
Attraverso questi duelli fratricidi, ho assunto responsabilità nazionali, per partecipare all’evoluzione di certe azioni, per trarre il coraggio di accettare l’inerzia e per conoscere le differenze attraverso la saggezza. La storia dell’uomo non è mai niente altro che la storia delle sue stesse guerre. Sta a tutti noi ricominciare da capo. Una guerra che facciamo contro noi stessi per sfuggire a quella degli altri.
Quando possiamo osservare la bellezza, è perché la qualità del movimento senza dubbio ha asservito perfettamente l’idea. Ma basta l’idea per creare bellezza? È impossibile rispondere, ma credo solo che sia quando tocchiamo l’essenza stessa delle cose che diamo vita alla bellezza. Un modo anche per affermare che ciò che la bellezza ci permette di vedere è soprattutto il risultato di un incontro, di una mutata percezione, e questo per offrirci quei tagli, e ancora quei momenti di grazia e di abbagliamento, per giungere alla fine di quel viaggio che non è mai iniziato!
Come è iniziata la sua relazione con i maestri giapponesi e quali loro qualità le hanno permesso di poter progredire lungo il suo percorso di crescita nel Budo?
È iniziato tutto nel 1993 con il Versailles Budo quando ero responsabile della commissione Iaido del CNKDR (Comité National de Kendo et Disciplines Rattachées). D’accordo con il Comitato, da aprile 1995 a febbraio 2008 ho quindi organizzato oltre quaranta seminari nazionali con la presenza di delegazioni giapponesi.
Nonostante le numerose richieste dei Sensei giapponesi, sono stato costretto dalla mia posizione ad evitare di avvicinarmi a un Sensei particolare
I loro punti di riferimento sono i loro nascondigli e viceversa [da un gioco di parole derivante dal francese in cui i punti di riferimento si definiscono repère, e i nascondigli si definiscono repaire].
Sono esseri segreti, dotati di dignità naturale, e che parlano poco. Sono uomini solidi ma solo di passaggio: ciò che conta non è da dove vengano, ma cosa abbiano da dare.
Sono caratterizzati da temi comuni che strutturano le loro storie. Sono spesso uguali eppure ognuno li tratta con la propria sensibilità, in modo che la tavolozza possa arricchirsi ad ogni nuovo incontro e il quadro dipinto possa assumere quelle sfumature che ne costituiscono il sapore e il valore.
Hanno gli occhi del viaggio interiore o quelli dell’insondabile.
Costituiscono un percorso che ci riporta in terre dimenticate, che ci fa scoprire le tracce di un’epoca diventata polvere e riporta alla luce quella che era stata la vita di chi, ormai sdraiato sotto la pietra, è tornato nel cuore della terra. Uomini discreti, delicati, attenti alla natura umana e alle loro passioni, che gettano uno sguardo lontano su un mondo dal quale è impossibile dire se sia preoccupato o divertito.
Credono nella voluttà dei sentieri aridi e affermano che la postura abbia una sola sillaba per trasformarsi in impostura. Di fronte alla violenza del mondo, alla brutalità, alla volgarità o alla mediocrità dei comportamenti, uccidono l’usura del tempo per rendere l’uomo più saggio e meno amareggiato.
Sono uomini di cuore, possiedono quella qualità preziosa disprezzata dagli arroganti che è la gentilezza, coltivano il gusto della discrezione come stile di vita, come arte dell’eleganza.
Il loro stesso sguardo da solo è un indicatore della direzione da prendere: hanno lo sguardo del viaggio interiore che tocca la verità degli esseri, i segreti dei cuori e le profondità dell’anima.
Si abbandonano solo nei momenti di grande angoscia e rivelano in questo momento un profondo disordine.
Sono solo io che ho sognato questi incontri, o sono reali?
Chi è il suo sensei di riferimento e di conseguenza a quale ryu si è avvicinato?
Ho scoperto Muso Shinden Ryu sotto l’insegnamento di Jean Pierre Raick sensei, il mio insegnante, oltre al Tamiya Ryu. Inoltre ho praticato un po’ di Hoki Ryu con Hiroyuki Konaka sensei. Hikoshiro Sato sensei mi ha preparato per il 6° dan ed infine Takashige Yamazaki sensei per il 7° dan.
Nella sua vasta esperienza ha potuto rendersi conto di eventuali evidenti differenze tra il modello di insegnamento giapponese e quello occidentale o ci sono punti di sovrapposizione particolari?
Il dojo è un simbolo fortissimo del Budo, un luogo di vita, di progresso, un luogo dove soffia uno spirito, nel quale armonia e serenità nascono dagli incontri tra gli uomini, le funzioni e le capacità ma anche dalle aspettative, dalle convinzioni, dalle possibilità e dalle certezze indicibili.
Ho imparato che in campo pedagogico non esiste una ricetta ideale, un insegnante ideale, uno studente ideale che esegue un kata ideale davanti a una giuria ideale, sotto gli occhi di un maestro ideale.
L’essenziale è esserci perché l’insegnante può riconoscersi solo dove sia impegnato.
L’insegnante dovrebbe far crescere lo studente come lui stesso vorrebbe essere, guidarlo verso la meta dove lui stesso vorrebbe ritrovarsi.
A proposito di avvicinamento, come si avvicina un praticante a questa disciplina per la prima volta, con quali motivazioni secondo lei?
Ogni praticante, ai suoi esordi, si confronta con il rigore della pratica, con questa precisione del gesto e con la necessità di esprimersi attraverso un quadro rigido e preciso. Inizialmente, potrebbe sentirsi frustrato e persino costretto dai dettagli del gesto. A poco a poco, accetta questo rigore e ne comprende la necessità. Poi arriva il momento in cui vuole sapere perché pratichi e non come si pratichi.
Perché ad esempio pratichiamo Muso Shinden Ryu e non Muso Jikiden Eishin Ryu, Shinkage Ryu, Tamiya Ryu, Katori Shinto Ryu, Hoki Ryu, Suio Ryu o Tatsumi Ryu? Non c’è verità se non giudizi di gusto relativi a particolari configurazioni intellettuali, concettuali, storiche o ideologiche: qualunque sia il Ryu scelto, si tratta soprattutto di coltivare il gesto puro.
Ma cos’è il puro gesto? È il gesto libero dall’ambizione, dall’ansia, dalla volontà di fare che trae origine dall’ego. Il gesto puro è pensiero fecondo quando risveglia la coscienza di ciò che non è giusto. È un linguaggio per sentire il mondo e il posto che occupa in esso. Non bisogna rinchiuderlo né trattenerlo, la sua leggerezza ne accelera il corso e libera la tecnica, continua nel momento stesso in cui si ferma. Il gesto diventa unico per ciò che fa nell’esatto istante di quando lo fa. E’ qualcosa che libera l’essere e non l’apparire: il gesto guidato da uno spirito sereno e libero ne svela l’anima e rivela la mano del maestro.
Mi sembrano pensieri profondi che non possono che essersi sviluppati attraverso un percorso introspettivo molto curato, segno di una precisa volontà, come diceva anche all’inizio di ottemperare ad alcuni doveri morali quali l’insegnamento. Quando ha iniziato a pensare a questa fase?
I miei primi passi nel Judo sono avvenuti nel 1970 a Vimoutiers, in Normandia, mentre quelli nel Kendo e nello Iaido risalgono a due anni prima della creazione del Versailles-Budo nel settembre 1979. Fu in questo periodo che iniziai ad insegnare Kendo e Iaido senza particolari requisiti avendo di base solo un corso di formazione da insegnante. Negli anni 2000 il gruppo contava già 120 praticanti.
E in tutto questo tempo e con tutte le trasformazioni che avrà visto è possibile delineare i cambiamenti che hanno caratterizzato questa disciplina negli anni e qual è il suo obiettivo oggi?
Lo iaido è cambiato, e aspira ad uscire dalla sua struttura per diventare uno strumento per la conoscenza di se stessi e per lo sviluppo della personalità. Il suo obiettivo non è solo quella di trasmettere conoscenze o saperi, ma anche di accendere fuochi: il fuoco dell’attenzione, il fuoco dello stupore, quello del coraggio, della determinazione, della libertà di essere se stessi , il fuoco della passione, della condivisione, il fuoco di una vera avventura umana. Significa respirare la sua origine e la sua fine, tendere verso la sua assolutezza, coglierne le profonde risonanze.
L’insegnamento impedisce di essere troppo calmi e di inaridirci. Non insegniamo ciò che vogliamo. Direi anzi che non insegniamo ciò che sappiamo o ciò che pensiamo di sapere, insegniamo e possiamo insegnare solo ciò che siamo. L’importante è essere e ci si può riconoscersi solo dove ci si è impegnati.
Dai cambiamenti alle trasformazioni agli obiettivi, anche rimanendo all’interno del limitato spazio temporale di una lezione ci saranno sicuramento dei punti fissi che affronta nel suo insegnamento: come si riflettono questi principi in una sua lezione di Iaido?
L’arte, fin dall’origine del mondo è solo un movimento. Nasce dalle costrizioni, vive nelle lotte e muore con le libertà. Cerca la vita e il brivido dell’animo umano nel cuore di un patrimonio culturale che gli appartiene ma che costruisce l’essere. Si tratta di capire cosa viviamo e cosa siamo, di sentire cosa si possa dire e su cosa si possa tacere.
Ecco, bisogna estrarre la spada dal fodero con lo stesso movimento e la stessa sicurezza, con lo sguardo calmo e serio, lasciando che il movimento nasca dentro noi stessi per rivelare le tre dimensioni del tempo. Il dono del passato è la memoria, quello del presente è la visione, quello del futuro è l’attesa. La paura della ripetizione è sempre presente. Bisogna completare l’incompiuto per permettere la trasformazione nell’arte della vita.
Un soffio, un’ombra, un nulla… Il praticante deve affrontare il vuoto per coltivare la correttezza e la cortesia richiesta, la disciplina che deve essere osservata, l’umiltà che deve essere sentita e la sincerità che deve essere applicata. Senza un inizio e senza una fine, la perfezione e l’imperfezione si uniscono per esprimere l’invisibile attraverso il visibile. È come un’ombra bloccata nel gelo prima di poter raggiungere il proprio obiettivo, senza la volontà né la speranza di essere migliori o più forti e deve prendere forma solo attraverso la cancellazione della propria traccia nella percezione dell’altro.
Si deve migliorare percorrendo questo viaggio attraverso l’autenticità, la veridicità e la fedeltà per raggiungere una superiorità estetica e spirituale… per andare verso l’essenziale, ancora e ancora, che rimane la cosa più difficile da raggiungere… per trovare il silenzio che crea, amalgama, scolpisce lo stesso essere umano.
Ciò che la katana taglia nella sua ultima fase è ciò che scorre al suo interno e non ciò che esiste al di fuori di essa. Il praticante osserva a lungo la sua lama, poi con un breve sorriso la pulisce dalla sua goffaggine e la infila nel fondo del fodero.
E il giorno successivo, si ripete di nuovo la stessa scena..
Quale ritiene essere un imperativo impellente per garantire il costante miglioramento di questa disciplina, attraverso il grande carico culturale e filosofico che si porta appresso?
C’è un urgente bisogno che i leader e gli insegnanti di Iaido si sveglino e comincino ad ascoltare il lato culturale, marziale e spirituale di questa disciplina, altrimenti continuerà ad impoverirsi per diventare una semplice attività senza contenuto, senza anima, senza carattere particolare.
Guardando questi dettagli e non vedendoli, vengono definiti invisibili. Udendoli e non ascoltandoli, vengono chiamati impercettibili. Toccandoli e non raggiungendoli, sono detti impalpabili. Ma in quanto inafferrabili e fugaci, questi purificano senza offendere, rettificano senza costringere, illuminano senza abbagliare. Colui che allontana se stesso da tutto ciò non ne parla.
Ecco un aneddoto sulla casualità e la falsità del reale. Questo aneddoto è più una questione di lotta tra tenebre e oscurità che di chiaroveggenza.
Quindi quale conclusione possiamo trarre riguardo al futuro del Iaido europeo e come dovremmo muoverci per promuoverne i valori?
La risposta a questa legittima domanda sembra emergere abbastanza chiaramente.
Penso che Iaido occupi un posto essenziale nel panorama europeo. Sottolinea l’importanza della cortesia e del rispetto reciproco. Rafforza la pace e la prosperità tra tutte le federazioni. Cresce ragionevolmente rimanendo fedele alle sue origini, con saggezza ed efficienza. Tuttavia, le delegazioni giapponesi restano essenziali per la trasformazione del nostro Iaido.
I valori in gioco sono molti e sono profondi, rendono appieno il concetto di una Via. L’aspetto dell’approccio alla disciplina è ancora centrale a questa interessante discussione e abbiamo già parlato delle motivazioni che spingono un neofita verso l’arte della spada. Come presenta quindi tutti questi concetti ad un praticante ancora inesperto e quali consigli potrebbe dargli per consolidare questo suo interesse?
Gli direi semplicemente che la forza suprema dell’arte della spada è quella di costringerci alla volontà di esaurire quanto di inesauribile questa disciplina abbia da offrirci. Comincerei col fargli disimparare le forme eventualmente acquisite in altre discipline.
Lo inviterei ad abbandonarsi alle forme del tempo, ad eludere le sue certezze, ad osare di vedere e pensare in modo diverso, ad essere curioso per sperimentare l’anima umana… e finalmente ad essere se stesso.
Vorrei che amasse ciò che debba essere amato e dimenticasse ciò che debba essere dimenticato.
Gli augurerei passioni, silenzi, e di resistere alla stagnazione e all’indifferenza, quali virtù negative del nostro tempo.
Tornando invece ad un aspetto più generale, e anche in virtù del nome scelto per la sua scuola a Versailles, quale insegnamento del Budo sente particolarmente affine e cerca quindi di trasmettere di preferenza?
La responsabilità dell’insegnante quando giudica non è quella di esercitare una supremazia sui praticanti. A parte i criteri definiti dallo iai ZNKR, la benevolenza dell’insegnante deve essere orientata più al miglioramento che alla sanzione. Un insegnante dovrebbe sforzarsi di comprendere lo sguardo degli allievi, considerare quali rischi si vogliano caricare, della loro audacia, di come si confrontino e dei loro limiti. Dovrebbe essere in grado di percepire la loro emotività e l’incompletezza dei loro gesti per inscrivere tutto ciò in uno spazio in cui l’insegnante possa offrire loro semplicemente il diritto di esistere come tali.
Siamo incredibilmente già giunti alla conclusione del nostro incontro, il tempo è letteralmente volato in sua compagnia discutendo su temi profondi che caratterizzano i diversi aspetti del percorrere un Via. Nel ringraziarla ancora per il tempo che ci ha dedicato, ed è stato un vero piacere, è nostra abitudine chiudere con un aneddoto che abbia caratterizzato la pratica del sensei e vorremmo quindi ancora chiederle di poterci raccontare qualcosa di particolare che le abbia fornito un ulteriore spunto di riflessione e che possa essere indicativo del suo particolare approccio alla pratica dell’arte della spada.
Una giornata di stanchezza, senza lamentarmi delle mie maledette ginocchia, dei miei piedi che rifiutavano di scivolare, e Sogiri che mi metteva di fronte ad un problema: nonostante fossi irritato e furioso per la mia incapacità a comprendere, il mio Sensei cercava con fermezza, rigore e precisione di spiegare le mie mancanze, con un fraseggio accurato e calligrafico.
Cercando di aiutarmi a risolvere la mia angoscia, mi chiese di seguirlo per un gita fuori dal paese di Ageo, da un amico che possedeva un appezzamento di bosco, e così finimmo in mezzo ai bambù, con le nostre spade. Dai nostri tagli orizzontali, diagonali e verticali sono emerse energie che hanno creato uno spazio in cui lo sguardo e il respiro vagavano dalla superficie verso la profondità, dagli elementi tangibili alle sensazioni.
Cosa stava cercando di trasmettermi? Voleva farmi padroneggiare i diversi angoli di taglio (hasuji)? O l’uso perfetto di Te no uchi, del Furikaburi, o del Monouchi? O la massa della spada? Il fischio della lama (tachi kaze)? Trovare l’anima di ogni gesto o dare vita alla spada, che diventava un’estensione di me stesso? Il Sensei sembrava felice di questa esperienza, poi, senza dire una parola, si è allontanato per un momento, lasciandomi solo con me stesso. In questa natura ho sentito il silenzio e nel vuoto delle sua assenza, la katana è diventata verbo.