Ho già commentato queste stesse parole, in questa sede, più di un anno fa. Allora, ricordo di essermi speso in una riflessione filosofica sul concetto di tempo e sulla riflessione su questa categoria nel pensiero occidentale e nipponico. Oggi torno su queste parole in modo diverso. Niente di nuovo, eppure tutto nuovo: del resto non si entra mai due volte nello stesso fiume, ricorda Eraclito.
Spesso siamo portati a pensare al tempo in senso quantitativo. Misuriamo il tempo, lo concepiamo come accumulo inesausto di cambiamenti, e ad essi diamo il nome convenzionale di minuti, ore, giorni, anni. “Quanti anni hai?” Diciamo in italiano; ebbene questa concezione cumulativa del tempo come raccolta di cambiamenti fatti nel corso della nostra esperienza di vita influenza anche il modo in cui ci poniamo nella pratica delle arti marziali. Anche se oggi in occidente la vecchiaia viene tendenzialmente nascosta o rimpiazzata da tendenze giovanilistiche più o meno scoperte, possiamo comunque affermare che sia in occidente che in oriente l’anziano viene tendenzialmente rispettato proprio in virtù delle esperienze accumulate nei suoi anni.
In questo sta anche uno dei tratti caratteristici del budo, ovvero la sua progressione nel cambiamento. Il sistema dei dan, che è stato introdotto in Giappone nella tarda modernità, ha in qualche misura istituzionalizzato questa concezione del tempo come accumulo di esperienza anche nella pratica marziale. In questo naturalmente non c’è nulla di male, anzi è un sistema molto funzionale per verificare di volta in volta i progressi, ma anche i fallimenti, che viviamo nel praticare una data disciplina.
Portare un alto grado è senza dubbio un onore, ma anche un onere, e in qualche misura attesta un percorso intrapreso con serietà e perseveranza lungo anni di pratica inesausta. Come tale, merita rispetto.
Eppure, ciascuno di noi è esposto nella propria pratica proprio alla tentazione del tempo accumulato, che in qualche misura può essere utilizzato impropriamente per esigere autorità. Frasi come “è da tutta la vita che faccio questo!” o “dopo tutti questi anni, avrò ben imparato a fare questa data cosa!” sono espressioni sintomatiche di un atteggiamento mentale che rischia seriamente di compromettere il nostro cammino individuale nella pratica. Ripeto: ciascuno di noi, indipendentemente dal grado che porta, è esposto a questo rischio.
Ora, il detto di Hagakure di oggi ci ricorda ancora una volta come accanto al pur necessario accumulo quantitativo del tempo, esiste la non meno rilevante qualità del tempo che viviamo. La decisività di un momento non è una qualità intrinseca legata ad una data situazione. Si tratta di un concetto relazionale, che parte dalla percezione individuale di una data esperienza e finalizzato conferirle valore.
Una pratica svogliata o abitudinaria, comoda, non conferisce tale valore al tempo. Si limita ad accumulare esperienze, senza che queste ultime possano definirsi rilevanti o decisive. Non lo sono per davvero, perché sono situate su un piano relazionale subordinato ad altre esperienze che riteniamo essere in qualche misura più rilevanti, spesso perché emotivamente più coinvolgenti.
Sono consapevole del fatto che questo è un discorso scomodo, che in qualche misura tocca tutti noi, e senza dubbio anche me. L’accumulo del tempo e della pratica è necessario e vitale fintantoché manteniamo vivo il rapporto qualitativo con quel momento presente. Collezionare allenamenti e seminari senza davvero conferire valore ai momenti rischia di essere persino più pericoloso di quanto non lo sarebbe praticare di meno. Questo certo è scandaloso, eppure credo che anche questo detto, ripetuto in questo nuovo tempo, abbia davvero qualcosa di importante da ricordarci.