di Emanuele Albesano – 1° Kyu Iaido
19 aprile 2016
Saya no uchi de katsu[1].
Ho sempre pensato che iniziare un testo (una lettera, una nota, un saggio, un atto giudiziario, una lista della spesa) con una citazione sia un mezzo alquanto cheap per attirarsi l’attenzione di chi legge.
Una captatio benevolientiae che trova peggior esempio solo nell’uso, spot e random, di inglese e latino.
Un ottimo metodo, in altre parole, per apparire – agli occhi dello sventurato lettore – sin da subito per quel che si è: soggetti privi di effettive basi concrete e di qualsivoglia seria preparazione pratica, ma, contestualmente e potenzialmente, campioni di Trivial Pursuit, quanto meno a livello intercondominiale.
Tanto premesso, come di certo tutti gli iaidoka ben sanno, parliamo di uno dei principi fondamentali della nostra[2] arte: “vincere [con la spada] nel fodero”.
Una citazione che fa molto budo.
Molto zen.
Molto kata al tramonto, a piedi nudi sulla roccia, gli occhi perduti nell’orizzonte, sullo sfondo il Fujiyama.
Sostanzialmente, come tutte le citazioni, fa, del tutto aprioristicamente, molto figo.
Ed è questo il motivo per cui – di nuovo, come tutte le citazioni – viene per lo più utilizzata a sproposito[3], senza mai soffermarsi sul suo effettivo significato.
Ebbene, queste mie considerazioni mirano alla conclusione, davvero ambiziosa, di dare una mia personale, personalissima, discutibile, discutibilissima, interpretazione del principio del saya no uchi de katsu[4].
Banalmente, iniziamo dall’inizio.
Ho frequentato il mondo delle arti marziali per una discreta parte della mia esistenza, spesso più da suiveur[5] che da praticante. Se la mia miglior dote, tra le innumerevoli, non fosse l’umiltà, potrei senz’altro definirmi un ‘cultore della materia’.
Meglio, delle ‘materie’: la mia passione per il vagabondaggio culturale[6] mi ha condotto da uno stile all’altro, rifuggendo, consapevolmente o meno, quel focus manifestamente fondamentale affinché una pratica marziale abbia un minimo di senso. In sintesi e per sommi capi[7]:
Nel frattempo, un carrello di antipasti misti marziali, con assaggi di bocconi più o meno sazianti di diverse specialità:
In altre parole, o molta sfortuna nell’imbattermi in (simil)istruttori discutibili[15] o mia incapacità nel comprendere l’essenza delle arti e nel fraintendere i saggi insegnamenti che, vanamente, mi venivano impartiti. Verosimilmente, entrambe le cose.
Poi, arriva lo iaido.
Sul perché e sul per come, “questa è un’altra storia e si dovrà raccontare un’altra volta” (sono terzo dan di sfoggio inutile di citazioni)[16].
Oggettivamente, a prima vista, una roba strana, che ho spiato di sottecchi per qualche settimana (lo ammetto: anche su Youtube[17]), prima ancora di immaginare di lanciarmi in una lezione di prova.
Al primo impatto, non si capisce il senso della cosa.
Un tizio con la faccia seria, vestito con una gonna pantalone (non di quelle che si-usava-negli-anni-ottanta-insieme-alle-spalline-imbottite: una cosa più samurai e meno falò delle vanità).
In mano, una katana, che subito ti ricordi dei telefilm doppiati fuori sincrono con sandali di legno e carrozzine[18].
Il tizio saluta, si inginocchia e, sempre serio, si mette a fare una cerimonia del tè (con la spada al posto della tazzina), senza, del tutto miracolosamente, incasinarsi con un demoniaco cordino, attaccato, senza alcun motivo apparente, al fodero.
Il tizio si infila la spada e stimola così in tutti una domanda: non poteva mettersela prima, visto che sembra una procedura molto complicata? E, soprattutto, non può togliere via quel cordino, ché dà solo fastidio?
Poi, sempre serio, sfodera, taglia l’aria un paio di volte, rinfodera.
E poi via, un’altra cerimonia del tè (sempre con la spada al posto della tazzina), ma un po’ diversa da quella di prima. Non sto nemmeno a dire che il cordino diventa sempre più odioso, da alzarsi con un paio di forbici e fare un favore al tizio e tagliarglielo via: no, grazie, niente applausi, lo faccio per il bene dell’umanità.
Poi, il tizio prende e se ne va.
“Cioè, questo è lo iaido?”
“L’antica arte dei samurai?”
“Lo zen in movimento?”[19]
“Ma i centootto movimenti del Suparinpei?”[20]
“Ma non è spettacolare! Dove stanno i salti a trecentosessanta gradi?”
“Facciamola roteare, ‘sta katana.”
“Il kiai dove sta? Non si può pretendere di far finta di uccidere qualcuno senza kiai, siamo seri.”
“Raga, comunque a me ‘sto cordino fa antipatia a pelle.”
“Dai, andiamo, che su Italia Uno c’è Gionsìna, iuchentsimì!”[21]
Conclusione iniziale: facile, che ci vuole. La cosa ideale per un marzialista non più giovane, con ginocchia plurioperate. Tempo tre mesi e sono il migliore.
Easy.
Ti iscrivi e passi le prime tre lezioni a sentirti un piccolo Goemon Ishikawa[22].
Una bella posizione bassa di zenkutsu dachi[23], il delirio di onnipotenza dato dall’impugnare uno strumento di (molto potenziale e molto astratta) morte[24], il fatto di sentirsi innegabilmente figo vestito all black: voglio dire, nessuno vuole essere Ralph Macchio, no? Dai, lo sappiamo che quando Kreese ordina a Johnny di spezzare la gamba a Daniel-San, facciamo tutti il tifo per il Kobra-Kai[25].
Poi, con il passare delle settimane, le prime insicurezze: ti rendi conto di non aver capito, fondamentalmente, nulla. Ed è panico.
La posizione di base è troppo alta, troppo lunga. Già, non era zenkutsu dachi. Il taglio è troppo stretto, “non piegare i gomiti, non abbassare la punta”. Scopri il principio dei piedi sulle rotaie, con buona pace del sistema di spostamento ‘a mezzaluna’ dello Shotokan. La punta non ne vuole sapere di essere lanciata e il nostro amichevole kirioroshi, ostile alla linea retta, si intrattiene illecitamente con discese casualmente curve e sempre irregolari. Talora la spada fischia (poco), pretestuosa ed ingannevole: ma è solo illusione che regala un effimero autocompiacimento, perché non è detto che un effetto sia portato da una giusta causa.
E poi, il taglio kesa, l’unica cosa più odiosa del cordino, che fa sorgere vari dubbi, tra i quali:
- perché tutto questo astio da parte dei samurai nei confronti dei monaci?
- al netto delle ragioni dell’odio, ma perché il monaco non lo posso decapitare, ma devo necessariamente ucciderlo con un preciso taglio sulla linea della tunica[26]?
- se un samurai astioso ed anticlericale dovesse incontrare un monaco in borghese, sarebbe comunque autorizzato ad ucciderlo o dovrebbe prima cortesemente invitarlo ad indossare la divisa d’ordinanza?
In sintesi, il mio iter ha visto le seguenti tappe:
- presa d’atto della mia iniziale mancanza (assoluta) di comprensione di qualsivoglia principio basilare dello iaido, con conseguente implosione dell’originario stato di self confidence[27];
- autocritica costruttiva e tendenziale impulso al miglioramento;
- scoramento esiziale, a fronte dell’apparente assenza di qualsivoglia sensibile progresso.
Per la prima volta nella mia vita ‘marziale’, mi sono sentito fuori da ogni comfort zone. Non solo non ero il migliore (nemmeno tra i principianti con pari esperienza): lottavo in zona retrocessione.
Il primo anno di pratica è stato, in qualche modo, logorante: una sensazione, corretta o meno, di mancato raggiungimento di obiettivi minimi intermedi rendeva alquanto scivolosa la via, con seducenti sentieri di fuga, che decidevo infine di imboccare, allontanandomi dal dojo per quasi tre mesi.
A gennaio, complice un periodo lavorativo relativamente più soft, mi ripresento a lezione[28]: solite sensazioni negative, solita presa d’atto della mia pochezza, solita crescente perdita di fiducia ed un impulso alla seria rivalutazione della mia potenziale carriera di iaidoka.
A quel punto, un deus ex machina, impersonificato dalla Maestra[29], mi si avvicina e, senza premesse, mi chiede: “Tu li fai i campionati nazionali, vero?”. La domanda, accompagnata da un (alquanto significativo) gesto assertivo del capo, è di quelle con una sola risposta giusta.
Ma dai, i campionati nazionali.
Va bene, lo iaido non ha centomila praticanti in Italia e ci si divide per grado, ma i campionati nazionali? Voglio davvero, seriamente, umiliare me stesso, i miei Maestri ed i senpai, manifestando pubblicamente la mia assoluta carenza di capacità minime essenziali?
Il mio “no”, come previsto, non viene accettato e si trasforma in un “sì”, pur poco convinto.
A quel punto, la scintilla illumina la notte: prima fievole, poi più accesa, alla fine incandescente. La mistica, perduta, mitologica fiamma della “motivazione”.
La gara.
Quella che ti costringe a metterti in gioco, davanti all’elite nazionale di giudici e praticanti. Quella che devi dimostrare tutto in tre minuti. Quella che è una metafora della vita, del lavoro, delle relazioni sociali. Quella che non offre una seconda occasione. Quella che il tuo destino dipende dal giudizio, insindacabile, di gente che non sa nulla di te.
“La gara!”[30].
Va bene, accettiamo la sfida. Mancano meno di tre mesi e il mio livello è imbarazzante. Facciamo una breve check list:
- imparare i nomi dei kata: sono dodici, ce la posso fare;
- associare il nome del kata con il rispettivo numero del kata[31];
- imparare la sequenza del kata[32];
- imparare a vestirsi in maniera dignitosa[33];
- addentrarsi nei meandri misteriosi del saluto iniziale e del saluto finale[34];
- cercare di non amputarsi un dito ad ogni rinfodero;
- capire perché, nel Ganmen Ate, la saya insiste nel volersi infilare sotto l’hakama, rendendo i miei movimenti molto meno marziali del previsto.
Sono stati i tre mesi più produttivi della mia carriera di marzialista.
Non credo di aver mai imparato tanto in così poco tempo e non ho mai avuto la sensazione (corretta o meno) di miglioramenti tanto rapidi.
La frequenza del dojo (grazie anche alla comprensione di mia moglie: Claudia, ti amo!) è diventata più assidua. Ho studiato i manuali. Ho cercato di sfruttare al meglio ogni minuto delle lezioni. Ho praticato per conto mio. Ho fatto prove di vestizione che nemmeno una valletta di Sanremo. Ho sentito una crescita costante, che mai avevo provato nell’anno precedente.
Ho – forse – iniziato a capire, in minima parte, il senso di quel che stavo facendo.
Come avrete capito, il risultato della gara è del tutto irrilevante[35]. Ho vinto la mia sfida combattendo contro me stesso, tagliando via i miei limiti. Senza nemmeno dover estrarre la spada.
Saya no uchi a tutti voi!
P.S. Il cordino lo odio ancora. Solo che ora lo chiamo sageo.
[1] Nell’originale giapponese, 鞘の内で勝つ. Secondo Wikipedia, uno dei possibili autori sarebbe Munenori Yagyu, La Spada che dà la Vita. “Note”, Milano, 2004, 137-138.
[2] “Nostra” in senso lato: più che altro, ‘vostra’, vista la risibile esperienza di chi scrive. Colgo, a questo proposito, l’occasione per evidenziare come quanto qui scritto rappresenta unicamente la mia personale opinione, potenzialmente fallace (recte: certamente errata); non invece quella del dojo, della direzione del blog, dei responsabili del sito, della C.I.K., né di terzi di sorta.
[3] Ad esempio, come titolo ad un articolo di blog.
[4] Le note a piè di pagina sono frutto dell’irrefrenabile flusso di coscienza che mi investe nella scrittura: spero possano contribuire a rendere il senso del tutto ancora meno chiaro di quanto già non sia.
[5] Non potevamo farci mancare il francesismo, vero?
[6] La, di certo ben nota a tutti, ἐγκύκλος παιδεία: una sorta di “giro in giro” alla ricerca di conoscenze, ma fatto da Plutarco e Crocodile Dundee. Se non avete capito la (fantastica) battuta, vergognatevi della vostra giovane età.
[7] E con ampia riserva di tornare sul tema, per narrare in dettaglio alcune delle vicissitudini più interessanti.
[8] Ero più alto del mitico maestro Nomachi Tadao, che ho poi scoperto praticare judo per hobby, visto che attualmente non solo è ancora vivo e lotta in mezzo noi, ma è anche ottavo (!) dan di karate goju-ryu.
[9] Momento nostalgia per la Nuova Doyukai, palestra ormai chiusa da una ventina d’anni: un dojo dedicato solo ed esclusivamente alle arti marziali, come non credo ne esistano più. E un grazie anche al Maestro Franco Stizzoli, sesto dan, ed a Silvio Campari, che ho lasciato terzo dan e che, da rapida ricerca su Google, scopro essere ormai sesto dan pure lui, oltre che plurimedagliato in mille competizioni nazionali e non.
[10] Insieme e contemporaneamente, con lo stesso istruttore, verosimilmente autodidatta e sinceramente simile, nel fisico, a Danny De Vito più che ad Yip Man (almeno quello dei film). Pratica abbandonata dopo un mese, nel momento stesso in cui Sifu Danny ha cercato di convincermi che il Tai Chi (quello che si vede fare in tv da centomila cinesi per volta nei parchi) è – così com’è e senza nessuna sostanziale modifica – utilissimo per la difesa personale ‘da strada’. Va detto che probabilmente aveva ragione lui: il simpatico ed amichevole rapinatore armato di serramanico arrugginito sarebbe verosimilmente spiazzato dai movimenti lenti ed ipnotici dell’arte e non avrebbe altra scelta che convertirsi al Buddhismo.
[11] Due-lezioni-due: anche qui, abbandono repentino a causa di tentativo, da parte dell’istruttore (anche questo, pacificamente autodidatta), di convincermi dell’utilità “da strada” (cit.) di tecniche come la forbice volante al collo. Breve inciso: per quale ragione molti istruttori (meglio, pseudo tali) di arti marziali vogliono far credere ai propri allievi che l’Italia, al netto di pizze e mandolini, è come la Siria? Non so se è per mia buona sorte, ma in una quarantina d’anni non sono mai stato aggredito o minacciato, tanto meno da rapinatori armati: peraltro, quand’anche dovesse accadere, non cercherei di disarmarli (tanto meno con una forbice volante), ma lascerei loro, di buon grado, i miei pochi averi. In sintesi, la miglior autodifesa consiste nel non portar con sé contanti, ma solo carte di credito con il numero di telefono per il blocco.
[12] Tre lezioni: l’istruttore (che, da curriculum on line, dichiarava di aver frequentato – tra gli altri mille corsi – anche un’accademia di Tel Aviv; accademia della quale, curiosamente, non v’era alcuna traccia su alcun motore di ricerca: sarà che i servizi segreti del Mossad sono tanto abili da cancellare le proprie tracce agli occhi dei curiosi) portava all’estremo il principio del para bellum: dopo la prima lezione dedicata alla difesa da kalashnikov, ho purtroppo saltato la seconda, avente ad oggetto il contrattacco all’attentato con gas nervino.
[13] Quello da palestra, con musica tunz-tunz, tizie oversize in yoga pants ed esaltati con serie carenze di cardio, a picchiare un sacco immaginandoci la faccia del datore di lavoro pro tempore.
[14] No, non vi tedio oltre.
[15] A mia parziale discolpa, va detto che all’epoca (dieci-quindici anni or sono) era molto più arduo reperire informazioni attendibili on line: solo la lezione di prova poteva dare un’idea della serietà dell’insegnante.
[16] Trattandosi di riferimento geek, non citerei nemmeno la fonte. Ma sono consapevole che è testo da geek anziano: quindi, Ende M., La storia infinita, Stoccarda, 1979; ovviamente, passim. Il libro, non il film. Se avete visto solo il film, vi meritate di vivere nelle vostre false certezze, come quella che il Drago della Fortuna si chiami “Falkor” e non “Fùcur”.
[17] Quanto al ruolo, più o meno demoniaco, della rete nello studio delle arti marziali, mi riservo.
[18] Dai, la conoscete: https://it.wikipedia.org/wiki/Samurai_(serie_televisiva).
[19] L’ho sentito definire, cito testuale, anche “il golf delle arti marziali”: l’autore della frase è un rivenditore di un negozio specializzato. A questo punto, voglio il caddie per portarmi la spada.
[20] Il Suparinpei, tra l’altro, non l’ho mai fatto: è un kata integrato nello stile Naha-te dal Maestro Higaonna. Uno di quelli cinesi, poi rinominato dal Maestro Chojun Miyagi (no, non quel Miyagi che state pensando voi). Oggi si studia nel Goju-Ryu.
[21] Il riferimento è a John Cena, la superstar WWE nota anche nel mainstream, ed alla sua più famosa catchphrase. E comunque, al netto delle battute, il pro wrestling è una cosa seria: se vi dicessi che ha un progenitore in comune con il Ju-Jitsu (stile Bianchi: quello che si insegna in Italia, per capirci)? Approfondimenti a richiesta.
[22] Dai, quello di Lupin. Credo ci sia una legge penale per punire chi non sa di chi sto parlando. Guardatevi Wikipedia di nascosto, e vergogna: https://it.wikipedia.org/wiki/Goemon_Ishikawa_XIII.
[23] Posizione base del karate, quanto meno Shotokan. Si, ora lo so, non c’entra nulla con la posizione dello Iaido.
[24] All’inizio è un bokken: quindi, una morte astrattamente contundente. Conta il principio.
[25] Ovviamente, la citazione (dotta) cinematografica è chiara. Dopo “Karate Kid” e “La Storia Infinita”, mancano solo i “Goonies” e faccio tombola.
[26] Da Wikipedia: “La kesa (袈裟) (o kaṣāya in sanscrito, lett. “ocra” o “arancione”) è il nome giapponese della veste dei monaci buddhisti. Viene drappeggiata sotto un braccio e fissata alla spalla opposta. Si pensa che la kesa sia stata modellata in riferimento ad un indumento che il Buddha si cucì da solo utilizzando brandelli di stoffa utilizzati per coprire i cadaveri.”
[27] In italiano, “spocchia”; alt., “sboronaggine”.
[28] Notate l’artistico cambio di consecutio temporum: noi autori moderni siamo così, tutti alternativi.
[29] Danielle Borra, settimo dan, che insieme a Claudio Zanoni, sesto dan, costituisce (e non lo dico per piaggeria) la coppia di insegnanti più capaci e competenti che abbia avuto modo di incontrare nelle mie peregrinazioni.
[30] Da leggersi come se fosse detto da John Belushi in “The Blues Brother”: solo che lui diceva: “La band!”.
[31] Già, perché quando hai imparato i nomi dei kata, scopri che tutti li chiamano con il numero che occupano nella sequenza dei dodici.
[32] La sequenza, entry level. Per questo obiettivo, me la sono fatta bastare.
[33] Perché nello iaido è complicato anche vestirsi. Soprattutto se sei uomo e non sei abituato a tutti gli accessori ed ai laccetti ovunque. Poi finisce che stringi tutto troppo e dopo dieci minuti ti devono attaccare a un respiratore.
[34] Ricordate quelle che credevo, originariamente ed erroneamente, essere cerimonie del tè? Ecco.
[35] Certo, soprattutto perché ho perso al primo turno, Tra l’altro, nella mia categoria (1KYU), sostanzialmente tutti hanno avuto medaglie tranne me. Ma non è che dovete essere pedanti e farmelo pesare. Pensa te che brutte persone.
Complimenti per l’articolo: sagace, scorrevole e divertente!
Meraviglioso! Ottima scrittura, ho adorato le note, soprattutto la 6.