“In una disciplina non si giunge mai al termine. Quando pensi di essere arrivato alla fine, sei contro lo spirito della disciplina. Se, giorno per giorno, finché sei in vita, continui nell’esercizio, dopo la tua morte diranno che sei stato un bravo maestro. È difficile raggiungere l’unità interiore anche praticando una disciplina per tutta la vita. Finché la tua mente non è pura, non puoi dire di aver conseguito la Via. Perciò persevera nella pratica con grande coraggio.”

Yamamoto Tsunetomo, Hagakure I, 139 (trad. it. L. Soletta)

hagakure

Lo iaido è una disciplina. Nonostante vi sia certamente un margine di approssimazione nella resa del termine giapponese in una lingua occidentale, ritengo che la traduzione sia calzante. Ma che cosa intendiamo, anche in italiano, con il termine disciplina, non è forse poi così chiaro.

Il sostantivo “disciplina”, che esiste identico anche in latino, deriva dal verbo latino disco, “imparo”. Disciplina è dunque qualcosa che deve essere appreso, imparato. A questo punto, molti potrebbero pensare che si sfondino porte aperte, perché in fin dei conti ogni cosa si deve imparare: dall’allacciarsi le scarpe a tenere la forchetta in mano, leggere o nuotare. Tutto a questo punto potrebbe ricadere sotto la categoria di disciplina. Tuttavia, una disciplina non coincide con il semplice oggetto di un’azione da compiere che ancora non si è in grado di compiere. La disciplina ha invece a che fare con  il processo pragmatico dell’imparare, ovvero il punto non è l’azione in sé che si desidera porre come fine dell’apprendimento, ma il processo di apprendimento in quanto tale.

Questo cambia le cose. Nella nostra società occidentale contemporanea, almeno da cinquant’anni “disciplina” è un termine decisamente fuori moda. Assume spesso connotati negativi, viene associato alla rigidità, all’autoritarismo, persino al militarismo. Viene invocato come valore di controllo sociale dai più conservatori, come sinonimo di “ordine”. Spesso una delle motivazioni che i genitori adducono per iscrivere i figli a qualche attività sportiva è “imparare la disciplina”, ovvero educarli. Ma la disciplina, almeno nell’accezione corrente nel campo delle arti marziali, non ha questo significato. 

Una disciplina si pratica. Essa ha in primo luogo a che fare con  la cura di un rapporto umano: per apprendere occorre che qualcuno insegni, un maestro. Questo individuo, che molto in generale deve trasmettere le proprie competenze all’allievo, deve a sua volta praticare la disciplina, ovvero continuare a percepirsi in cammino nel proprio processo di apprendimento. Per questa ragione le parole apparentemente esagerate di Tsunetomo sono di cogente attualità per la pratica delle arti marziali, e rivestono una grande importanza per discipline come lo iaido.

A pensarci bene, lo iaido è probabilmente una delle migliori attività ad incarnare il concetto originario di disciplina: nessuno di noi pratica iaido per uccidere qualcuno con la propria spada; nessuno fortunatamente si troverà in casa propria seduto in tate hiza minacciato da qualcun altro armato nella stessa posizione. Eppure apprendiamo questo. Perché? A ben vedere ognuno potrà dare una risposta diversa e ben motivata, ma in generale io penso che il punto sia proprio imparare praticando, cioè porsi con umiltà davanti a qualcuno per essere giudicati, riconoscere i nostri limiti, e riconoscendoli, migliorare. È vero, certamente quell’unità interiore auspicata è umanamente complicata da raggiungere anche nel corso di decenni di studio, tuttavia io sono persuaso che l’obiettivo, in fondo, non sia raggiungere chi sa quale illuminazione, perché in realtà l’obiettivo è non avere obiettivi, ma praticare valorizzando la tensione dell’apprendimento come mezzo di perfezionamento personale.

In qualunque accezione vogliamo intendere l’espressione di Tsunetomo, sospetto che la nostra mente non potrà mai giungere a definirsi “pura”. E forse è questo il punto: nel riconoscere questa verità su noi stessi potremmo scoraggiarci, capire che non siamo poi tanto bravi come pensavamo di essere, sentirci piccoli. Per questo, probabilmente,  la chiave della disciplina è proprio il coraggio.

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