Si dice che l’uomo usi soltanto il nove o il dieci per cento delle sue capacità, ma, con la pratica della disciplina, si può arrivare a un certo grado che è difficile classificare. Se uno però si inorgoglisce, credendo di aver raggiunto un buon livello, è proprio questo un segno che sta ancora in basso. Una poesia dice: «Dove il cuore ti porta, là è la tua patria d’origine». In questo, pellegrinando da un posto all’altro, senza fermarti, puoi arrivare ad un livello superiore a quello degli altri uomini. Finché uno non sale un po’ in alto, non può capire le infinite capacità che sono nell’uomo.

Yamamoto Tsunetomo, Hagakure XI, 145 (trad. it. L. Soletta)

Dopo aver commentato diversi passaggi di Hagakure, ho maturato l’impressione che uno dei suoi temi più ricorrenti, nonché uno dei più significativi per i nostri contemporanei, riguardi il tema dell’approccio alla conoscenza.
Attenzione, Tsunetomo non tratta semplicemente del come si raggiunge una data conoscenza, non ci sta spiegando cosa fare per ottenere un risultato specifico. A più riprese, invece, mi sembra che la sua riflessione si ponga su un piano diverso, ovvero quello che riguarda il nostro entrare in relazione con il processo di conoscenza. Con un linguaggio un po’ filosofico, si potrebbe dire egli che non separa la gnoseologia, cioè la riflessione sulle possibilità conoscitive dell’umano, dall’etica, ovvero la riflessione sulla gestione dei rapporti del singolo con il resto della realtà.

La tesi è semplice ma efficace: esiste un rapporto simmetrico tra umiltà e conoscenza. Crescere nella conoscenza, in qualunque tipo di conoscenza, implica un maggiore grado di consapevolezza e dunque una conseguente riduzione del nostro ego. Superbia e conoscenza sono inversamente proporzionali.

Questo discorso, per quanto apparentemente banale, finisce per non esserlo affatto se prendiamo sul serio le sue conseguenze nella nostra comprensione del processo conoscitivo. Pensiamo agli inizi. Prima di saperci allacciare le scarpe, da bambini, non sentivamo la necessità di dover apprendere quella data abilità: la mamma o il papà potevano farlo per noi e non ci sentivamo incapaci o limitati per questo. Ma allora perché un giorno decido di imparare ad allacciarmi le scarpe? Qualcuno, o in generale la realtà intorno a me, hanno iniziato ad evidenziare un limite nella mia persona: alla tua età devi sapere allacciarti le scarpe!

Il processo conoscitivo non solo è corroborato dall’umiltà, ma è preceduto dall’umiltà. Ma che cosa cosa significa essere umili? In italiano e anche in inglese il termine umiltà è legato alla parola latina che indica la terra, il suolo: humus. Ha dunque a che vedere con l’abbassamento delle prospettive, ma anche con l’adottare un punto di vista diverso, che permette di vedere con maggiore chiarezza in primo luogo i nostri limiti in relazione al reale. L’umiltà è, anche etimologicamente, parente di un’altra parola: umiliazione. L’umiliazione non è altro che il risultato della nostra resistenza al dato di realtà, l’umiliazione implica l’essere resi umili da una forza esterna, contraria alla nostra volontà.
Laddove l’umiltà proviene dall’interno, dopo un’osservazione attenta dell’esterno, l’umiliazione proviene dall’esterno per aver osservato troppo a lungo al nostro interno.

Conoscere significa dunque mantenere uno stato di umiltà. Certo nella vita umana anche l’umiliazione ha il suo spazio. In un individuo sano, normalmente, l’umiliazione, seppure in forme limitate e convenienti, viene sperimentata durante gli anni infantili, e tende a trasformarsi in consapevolezza e umiltà in età adulta.

Occorre però fare attenzione: l’umiltà non è abnegazione o sottovalutazione di sé. Come abbiamo detto, l’umiltà aderisce alla realtà: riconosce i limiti, non li esaspera né vi si compiace. L’umiltà costituisce uno spirito forte, non debole.
Credo che tutte queste cose abbiano a che fare anche con la pratica del budo.

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