Malgrado ami molto scrivere, in genere preferisco evitare di mettere nero su bianco i miei pensieri riguardanti lo iaido, perché non mi sento sufficientemente qualificata per esprimerli. Ho deciso di fare un’eccezione, desiderosa di condividere qualche riflessione che mi è stata ispirata dal discorso conclusivo di Claudio Zanoni (6 dan renshi) in merito ai Campionati Italiani appena terminati. Sugli shiaijo di Castenaso, sabato e domenica, ho visto esibirsi tante persone. Non invidio per nulla il compito degli arbitri, per quanto lo trovi affascinante: è molto difficile formare un occhio in grado di valutare nel dettaglio l’esecuzione tecnica di un kata. C’è qualcos’altro, tuttavia, che entra in gioco nel momento in cui si tratta di competere: il cosiddetto Fighting spirit.

 

 

Il Fighting è un premio che non appartiene a tutte le categorie sportive e non è così diffuso nemmeno nel campo delle arti marziali. La definizione più sbagliata che abbia sentito per esso è, “si tratta di un premio di consolazione per il migliore non classificato”. Ammetto che sia un’eventualità possibile, ma si tratta di una spiegazione assolutamente insufficiente. Il dizionario dell’Università di Cambridge, alla voce Fighting spirit, recita “the willingness to compete or to do things that are difficult”, sarebbe a dire “la volontà di competere o di cimentarsi in cose difficili”. Forse non basta nemmeno questo, ma è un buon punto di partenza: nelle gare di iaido si assegna un premio a chi è in grado di mostrare la propria volontà.
Lo iaido è un’arte marziale giapponese, e la cultura di questo meraviglioso popolo assegna alla volontà di combattere un valore unico. La memoria storica europea in genere tende a ricordare gli eroi di successo, quella giapponese al contrario è affascinata dal fallimento determinato, al quale riconosce un prestigio quasi superiore a quello della vittoria (che spesso corrisponde al compimento di un dovere, quindi qualcosa che non è meritevole di particolare lode in un contesto ligio). Figure come Yamato Takeru, Yorozu, Arima no Miko, Minamoto no Yoshitsune, Kusunoki Masashige, su fino a Takamori Saigo e ai kamikaze, ci indicano che la volontà a prescindere dal risultato finale delle imprese di chi la coltiva ha per i giapponesi una rilevanza di primissimo piano.

 

 

Torniamo sugli shiaijo di iaido. La volontà di combattere (che coincide con la volontà di vincere, se vogliamo, di aver salva la nostra vita, di prevalere sul kasoteki) è parte di ciò che rende lo iaido un’arte marziale e non uno sport di combattimento. Prendiamo ad esempio un competitore che, sicuro nei movimenti, guarda dove prescritto, si muove come prescritto e punto per punto porta a termine l’esecuzione del kata come previsto dai dettami ufficiali della Zenkenren. Avremo una bellissima esecuzione, sul piano atletico… Ma questo è iaido, e la tecnica, per quanto primaria e fondamentale, non basta a sé stessa. Lo indica la categoria stessa: pratichiamo un’arte marziale, e “arte” implica un’attività d’estrinsecazione poietica, in parole semplici la creazione dal nulla, il tirare fuori qualcosa che viene da dentro. Ma cosa possiamo tirare fuori, dal nulla? Le parole di Zanoni mi hanno aiutata a elaborare una possibile risposta. Claudio ha parlato di rendere manifesta la fame di vittoria (stay hungry, come diceva il fu Steve Jobs). La fame implica l’esistenza di un vuoto che abbiamo esigenza immediata e forte di riempire. La volontà combattiva che ci è richiesto di mostrare è semplicemente una manifestazione della forza con cui cerchiamo di risolvere questa urgenza. Non si tratta banalmente di frenesia agonistica: voglio ricordare le parole con cui la maestra Kinomoto ha definito la ragione per la quale dobbiamo combattere, ossia, salvaguardare la vita che è il bene più prezioso che esista. Una corretta performance di iaido quindi non può prescindere dal vivere con senso di realismo il pericolo di soccombere e perdere tutto quello che abbiamo, coloro che amiamo. Non si può eseguire profondamente un kata di iaido senza questa forma di passione, e questo differenzia l’atleta dall’artista marziale.

 

 

Mi ripeto, non basta la volontà di combattere per generare un buon kata di iaido, le competenze sono comunque fondamentali. La volontà di fare qualcosa senza la capacità di farlo non porta a nulla in qualsiasi campo, nella vita quotidiana, nel lavoro, e lo iaido non fa eccezione. Perciò, quando ci alleniamo, nei nostri dojo, dobbiamo coltivare entrambi gli aspetti della pratica, quello fisico e quello metafisico. Non possiamo presentarci sullo shiaijo o all’esame e pretendere di improvvisare: senza un keiko attento e disciplinato non ci sarà tecnica sufficiente, senza cuore non ci sarà Fighting spirit. Dico “cuore”, perché la cultura giapponese quando utilizza il termine kokoro indica un’unione di spirito, corpo e mente. Quindi lo spirito combattivo è anche corpo combattivo (la tecnica efficace) e cuore combattivo.
Quanti compiti assegna lo iaido al cuore. Ci viene detto di rendere manifesta la nostra volontà di combattere, e questa è una responsabilità che ricade nell’ambito del kokoro, ci viene ripetuto spesso che per crescere nello iaido è necessario conservare (e proteggere) il cuore di principiante. Significa che dobbiamo continuare a coltivare il nostro amore per lo iaido proprio come faremmo con una relazione che non deve diventare mai scontata e stantia: dobbiamo conservare l’umiltà di fronte agli errori che conduce al desiderio di migliorarsi correggendoli, dobbiamo conservare la sensazione di meraviglia che sola è in grado di continuare ad alimentare il fuoco di quella passione cui dobbiamo attingere per crescere, non dobbiamo dare mai per scontato niente, mai sentirci “arrivati” in nulla, mantenerci in uno stato costante di incertezza e tensione verso la perfezione.

Chiara Bonacina, 3 dan

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