Per la stragrande maggioranza degli iaidoka praticare significa in primo luogo vivere attivamente la dimensione del dojo. Non siamo semplicemente la somma di individui svincolati gli uni dagli altri, ma piuttosto un gruppo di persone con un interesse in comune, cioè la progressione nella pratica, che ci unisce in vincoli di amicizia, collaborazione e reciproco aiuto. 

Il dojo, come luogo di pratica, costituisce uno spazio di lavoro non solo perché ci consente di avere a disposizione le condizioni per poterci allenare, ma anche perché all’interno curiamo le nostre relazioni umane. 

Nella dinamica di insegnamento e ricezione, nell’osservazione della pratica dei compagni su livelli differenti di crescita, negli errori che si commettono e si condividono, il dojo diviene ben più di un pavimento in parquet sul quale fare iaido.

La dimensione del dojo assume ancora, spesso, i connotati di una dimensione locale: solitamente il luogo in cui si pratica non è troppo lontano da dove viviamo, in primo luogo perché ci deve consentire una pratica settimanale. È nella nostra città o poco lontano, e le persone con cui ci alleniamo condividono per lo più la nostra cultura e il nostro linguaggio.

Tuttavia, accanto a questa esperienza, c’è anche quella del viaggio, del cammino e del trasloco. Esistono molte ragioni che possono spingere una persona a doversi spostare anche molto lontano dal proprio luogo di origine, e dunque anche dal proprio dojo, senza necessariamente condurre ad una interruzione della propria esperienza di pratica.

Chi mi conosce sa che negli ultimi dieci anni la mia vita è stata un continuo viaggio in città e luoghi lontani dal mio di dojo di provenienza, a Savona, e che tuttavia ho sempre continuato a fare iaido. Questa esperienza mi ha portato a considerare come la dimensione locale del dojo spesso sia anche particolarmente connessa ad uno specifico modo di insegnare. Ciascuno di noi fa iaido e condivide un linguaggio più o meno condiviso con tutti gli altri praticante a livello internazionale, ma spesso sfugge il fatto che non esiste un prontuario condiviso su come condurre un allenamento o come insegnare ciò che è scritto nel libro della ZNKR. Se mi si passa il linguaggio teologico, direi che non abbiamo una “liturgia” condivisa. 

Questo tema, di per sé abbastanza ovvio, in realtà impatta pesantemente sulla pratica nel momento in cui ci inseriamo come ospiti in una realtà consolidata, che ha saputo costruire nel tempo la propria liturgia, ovvero il proprio stile nel vivere il dojo e nel trasmetterne gli insegnamenti. 

Questo discorso non riguarda semplicemente la dovuta elasticità mentale nel saper discernere, sempre e comunque con rispetto e gratitudine, gli insegnamenti che possono scaturire dalle interpretazioni personali del maestro che viene seguito in quella particolare realtà, e che magari non coincide con il nostro; credo invece abbia soprattutto a che vedere con la comprensione del proprio ruolo all’interno di una realtà culturale (come quella di un dojo) che usa un linguaggio differente dal nostro. La domanda da porsi dovrebbe essere: in che modo le differenze che incontro, e talvolta anche quelle che possono sembrarmi mancanze, possono farmi crescere insieme, e non “nonostante”, i miei compagni di pratica? Come la mia presenza in quella realtà può essere percepita come arricchimento e non come intrusione indebita e un attacco ad un’autorità consolidata?

Davanti all’alterità lo spaesamento e talvolta anche lo scoraggiamento sono sempre opzioni aperte, che in alcuni casi possono davvero compromettere definitivamente il nostro percorso di crescita. Per questo motivo, credo sia anche importante saper cogliere le differenze come opportunità, e magari condividere, pur sempre con tono rispettoso e tenendo presente le dovute distanze tra le scuole, anche il nostro personale punto di vista. Gran parte della riuscita della nostra pratica e di quella dei nostri compagni dipenderà da questa reciproca capacità di osservare, discernere e accogliere la nostra e altrui diversità, per rendere il dojo una realtà di pratica ben oltre la piccola cerchia di quanti la pensano come noi: un luogo di crescita condivisa e amicizia sincera.

Vittorio Secco
Vittorio Secco e Carlo Cardani CCII Iaido 2022 – Foto di Alessio Rastrelli

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