Il 7 dicembre ho avuto occasione di partecipare alla lezione di koryu diretta da Borra sensei e Zanoni sensei. Ovviamente, trattandosi del primo di una serie di incontri mirati a familiarizzare con la scuola antica cui il nostro dojo è legato, è stata affrontata shoden.
Shoden è composta da Shohattō, Satō, Utō, Ataritō, Inyō Shintai, Ryūtō, Juntō, Gyakutō, Seichūtō, Korantō, Inyō Shintai Kaewaza (noto anche come Sakate oppure Gyakute Inyō Shintai) ed infine Battō. In questo articolo mi concentrerò su Juntō.
Juntō è un kata avvolto da un alone di struggente mistero: ogni volta che viene sfiorato durante una lezione di koryu, il sensei precisa che è un kata da non presentare in nessuna esibizione, da non portare in gara e da non usare per gli esami. La ragione è semplice: in Juntō non stiamo combattendo, bensì ci caliamo nei panni del kaishakunin.


Chi era il kaishakunin? Solitamente, soprattutto perchè il tempo è tiranno, si tende a liquidare la cosa spiegando che il kaishakunin era il migliore amico del guerriero immaginario, che in Juntō si trova in ginocchio, intento a compiere un suicidio onorevole (da qui in avanti, seppuku).
Chiaramente è impensabile offrire, nello spazio di un articolo di blog, una lettura esaustiva sul tema del seppuku. Mi piacerebbe riuscire a fornire un’infarinatura sul tema, in modo che i praticanti che si apprestano ad eseguire Juntō possano farlo con maggior consapevolezza.

1895


Iniziando dalle basi, la cultura giapponese è molto lontana da quella europea per quanto riguarda metafisica e idealismo, alle quali predilige un’attenzione verso il qui ed ora, potremmo chiamarlo un fenomenismo che riconosce l’unico assoluto nel mondo sensibile. Questo significa che, sebbene ci siano state correnti buddhiste vicine all’idea di preoccupazione per la salvezza dell’anima e perfino speranze in un altro mondo a venire, non è questo il pilastro del loro panorama concettuale. Ogni gioia e ogni dovere si trova in questa vita terrena. Il concetto di morte viene influenzato da questa visione del mondo, perchè la decisione di morire non è più così vessata dal timore di qualcosa d’eterno che verrà dopo. L’unica pressione viene da un’autorità immanente: se il mondo in cui viviamo è l’unico e sommo Bene, va servito con devozione e in caso in cui ci si riconosca in torto verso questo dio-mondo-presente, bisogna espiare.


Abbandonando la prospettiva generale che abbiamo costruito, facciamo un passo avanti ed entriamo nel contesto storico del Giappone percorso da costanti guerre fra clan. Il suicidio era uno strumento molto versatile: i capi militari sconfitti potevano privare gli avversari del trionfo nell’umiliarli, il guerriero insoddisfatto dalla propria sconfitta poteva punirsi in maniera esemplare, il vassallo virtuoso (in termini di Budo, non cristiani) era così votato al servizio del proprio signore da uccidersi per seguirlo. La morte volontaria in un certo senso tornava utile anche, passatemi il termine, allo Stato: senza nessuno in piedi per tramar vendetta, certo era più facile creare un contesto di quiete. Gli appassionati di L5R riconosceranno in questo Bayushi Tanden: “A living enemy is dangerous. A dead enemy is dead. Better to have a graveyard of dead enemies than a single angry one”.

seppuku


Fin dal concilio di Arles del 452 noi europei di matrice cristiana tendiamo a condannare il suicidio come un atto diabolico, irrazionale, folle. Ci vuole un certo sforzo per comprendere quindi una realtà completamente diversa.
Il gesto esatto del seppuku come lo conosciamo oggi, lo squarciamento del ventre, risale al XIII secolo. Secondo la codifica, la lama corta (wakizashi) andava affondata nel fianco sinistro e tirata fino al destro, quindi, per eccezionale virtù, era previsto che ci si aprisse in verticale dall’epigastrio all’ipogastrio. Allora e solo allora ci si poteva pugnalare dritti al cuore.

Il suicidio assistito, o kaizoebara, arriva durante i disordini dell’era Shokyu (1219-1222). Qui incontriamo la scena che abbiamo imparato a riconoscere, a grandi linee, in Juntō: il suicida è in seiza, mentre una seconda persona sta dietro di lui con la spada pronta a troncare di netto la testa in una sorta di colpo di grazia. Pian piano l’arte del seppuku si perfezionò, raggiungendo l’aspetto di un vero e proprio kata rituale.
Il kaishakunin poteva essere un vassallo come un amico fedele, un parente, ma anche un avversario del quale il suicida aveva in qualche modo guadagnato il rispetto. Provvedendo alla decapitazione con un gesto pulito e preciso il kaishakunin assolveva a diverse funzioni, che secondo me il praticante dovrebbe sforzarsi di comprendere, per coltivare i migliori sentimenti di compassione e rispetto durante l’esecuzione del kata.

Seppuku-Arma


Partendo dal basso, con la decapitazione il suicida smetteva di provare dolore. Restando sul piano materialistico, il seppuku permetteva al guerriero di conservare un minimo di dignità: non sempre le sue proprietà venivano confiscate, inoltre non veniva sottoposto a torture e strazi umilianti, e la famiglia poteva ricevere la testa – previa accurata pulizia – per la sepoltura. Bisognerebbe riflettere attentamente sui famigliari del suicida, perchè in un contesto quotidiano così preponderante morire sapendo di condannare la propria famiglia all’infamia (e all’espropriazione di ogni terra e avere) sicuramente non significava andarsene in pace nè in grandezza. In ultimo, su un piano filosofico e sociale, il kaishakunin era parte necessaria e importante dell’ultima e suprema decisione compiuta dal suicida, che esercitava così la sua volontà nel dio-mondo e mostrava la purezza del suo spirito.


Il seppuku non era un diritto, bensì una grazia della quale il kaishakunin si faceva agente, e sebbene si tenda oggi a vederlo come l’emblema romantico di una casta votata alla virtù guerriera, non dobbiamo dimenticare che dietro le armature c’erano persone che non vivevano di soli valori marziali. Persone che amavano, soffrivano, avevano famiglie e vite come le nostre. Perciò vi incoraggio a pensare al vostro ruolo in Juntō consapevoli della gravità e della grandezza legati ai movimenti che andrete a compiere in qualità di kaishakunin.

Chiara Bonacina, 3 dan

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