Mentre una sishi odoshi fa risuonare il suo morbido breve rintocco di bambù in una notta cristallina, due onna bushi si fronteggiano preparandosi ad un duello mortale, in un tipico giardino giapponese ammantato di neve. L’ultima immagine del duello è quella di un fiore di sakura impresso su una saya, che come quello vero, silenziosamente e solennemente si stacca dal ramo per morire di lì a breve, in tutto il suo splendore. A completare la fine, le vellutate note di uno shakuhachi introducono la lieve voce di Meiko Kaji sulle dolci note di Shura no hana, il fiore della carneficina.
Credo basti l’ascolto di questo brano per ricreare una delle immagini più note, anche a chi non sia appassionato di film sulle arti marziali, che rappresentano un Giappone particolare, caratterizzato da opposti, fatto di delicati dettagli, di richiami alla tranquillità dello Zen e feroci duelli di spada, il tutto accompagnato da soavi musiche a base di flauti e strumenti a corda.
È difficile parlare di musica senza poter provare le emozioni per le quali è stata concepita. Mi vorrei quindi addentrare in questo reame con l’ausilio di contributi audio che possano completare una semplice esposizione verbale, con il gentile invito a voler assaporare almeno qualche assaggio di questo strano menu musicale per una migliore immersione sensoriale, cliccando sulle immagini per poter guardare i video relativi: se la musica è spesso associata ad emozioni particolari, è interessante anche apprendere come in giapponese i kanji che identificano questo artistico sostantivo siano infatti una combinazione degli ideogrammi suono e piacere.
Che si tratti di produzioni cinematografiche classiche, film di animazione o produzioni teatrali, la musica è quella componente che aggiunge un forte impatto alla bontà della realizzazione. Ho avuto il piacere di poter raccontare qualcosa su vita e opere di Miyazaki Hayao e Mifune Toshiro, due colonne portanti della cinematografia nipponica assurte a icone a livello planetario, e sicuramente le loro opere hanno lasciato un segno nel cuore e nella memoria anche grazie al fondamentale supporto della colonna sonora. Nelle opere di Miyazaki la musica è stata definita come elemento essenziale, con una funzione narrativa fondante basata su brani strumentali che affondano le radici nella musica classica, eseguita da un’orchestra gigantesca con ovvi elementi provenienti dalla cultura giapponese.
La fama di questi grandi classici non si può quindi separare da quella non secondaria di chi abbia lavorato dietro le quinte, ma mica poi tanto, come Joe Hisaishi, nome d’arte di Fujisawa Mamoru, compositore noto per aver collaborato con i due più famosi cineasti giapponesi del tardo novecento, ovvero Miyazaki Hayao e Kitano Takeshi, per i quali ha scritto le colonne sonore di quasi tutti i film e le cui composizioni hanno ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui ben sei Japan Academy Awards for Best Music, facendogli conquistare una posizione di primissimo piano sul fronte dell’industria musicale nipponica.
Se non avete mai avuto la possibilità di ascoltare un’orchestra suonare dal vivo le colonne sonore dei film mentre questi scorrono muti su uno schermo cinematografico, è sicuramente un’esperienza che consiglio personalmente di fare perché cambia completamente la prospettiva emozionale: lascerò quindi il compito a qualche video di offirvi un rinnovato coinvolgimento, come quello del concerto per i festeggiamenti in occasione dei venticinque anni dello Studio Ghibli.
Di pari fama, Ifukube Akira ha composto oltre duecentocinquanta colonne sonore per il cinema e la televisione, fra cui le più celebri sono probabilmente quelle di Godzilla (1954) e Il trionfo di King Kong (1962). E gli strumenti musicali non sono solo stati usati per suonare le musiche, ma in maniera molto creativa anche per rumorizzare le pellicole: Ifukube è infatti il creatore del caratteristico ruggito del nostro kaiju preferito (https://kiryoku.it/mostri-giapponesi-orrore-e-paura-con-un-pizzico-di-educazione/), ottenuto dallo sfregamento di un guanto in pelle ricoperto di resina lungo le corde di un contrabbasso.
La cultura musicale giapponese richiama sicuramente a suoni percussivi, a gorgheggi e a strumenti particolari, all’uso di scale e progressioni spesso non troppo affini all’orecchio occidentale, ma non per questo prive di fascino e spunti interessanti, e che meriterebbero uno studio approfondito. La musica tradizionale giapponese (hogaku) raggruppa generi musicali diversi, che hanno avuto origini differenti e che si sono evoluti su un arco di tempo che in alcuni casi eccede il millennio.
Ciò nonostante è possibile individuare alcune tendenze e caratteristiche comuni a tutti questi generi, soprattutto evidenziando differenze di fondo rispetto alla musica occidentale che noi meglio conosciamo e che definiamo “classica”.
Sarei in imbarazzo a dover proporre un unico esempio di musica giapponese caratteristica, dato che mi vengono in mente almeno tre diversi macro “generi”, tutti altrettanto piacevoli ma che restituiscono emozioni completamente diverse:
– musiche percussive, rappresentate da gruppi come i più tradizionali Kodo o dai più moderni Tao, che ci riportano alle classiche scene cinematografiche di battaglie medievali, ma anche alle tipiche feste cittadine (matsuri).
– musiche con strumenti a corda, con uno dei miei preferiti gruppi moderni di questo genere, gli Yoshida Brothers, che uniscono tradizione nipponica e rock occidentale, ma che nella versione tradizionale sono quelle caratteristiche di molti film centrati sulle arti marziali.
– musiche con strumenti a fiato, rappresentate dal grande Kohachiro Miyata, e tipiche di scene di meditazione, rilassamento o melanconiche situazioni.
Tutti insieme, questi generi sono sicuramente presenti nell’immaginario collettivo degli appassionati di arti marziali, presenti in ogni film, con strumenti che caratterizzano particolari scene, l’arrivo di specifici personaggi o composte per creare l’atmosfera di un combattimento al pari dei grandi maestri occidentali alla Ennio Morricone (Il buono, il brutto e il cattivo, ma anche mille altre colonne sonore) o John Williams (Guerre Stellari).
Tecnicamente, una delle caratteristiche di questa musica è ovviamente la cosiddetta scala giapponese, in realtà una famiglia di scale pentatoniche armonizzate similarmente a quelle più conosciute occidentali dette modali (da una scala una maggiore si possono originare scala dorica, frigia, lidia, misolidia, eolia o minore, e locria): nella versione giapponese possiamo parlare di scale yo e hirajoshi, che a loro volta generano altre scale sull’esempio di quelle modali. Per chi abbia la possibilità di mettere le mani su uno strumento per comprendere praticamente questa scala, la hirajoshi si basa su intervalli che partono dalla tonica e seguono con 3a maggiore, 4a aumentata, 5a naturale e 7a maggiore: anche solo giocando con queste note si ricrea immediatamente l’atmosfera giapponese tipica delle produzioni cinematografiche.
Se mi sono permesso di catalogare la musica giapponese come se dipendesse da una sola famiglia di strumenti, è doveroso allora passare in rassegna quelli più tipici, ovvero:
– Taiko: termine che indica i tamburi generalmente associati nel mondo occidentale ai grandi tamburi, ma in realtà caratterizzati da molte dimensioni e diverse tipologie come quelli a barile o quelli cilindrici, bipelli e suonati con bacchette di diversi diametri.
– Biwa: liuti a manico corto dotato di tasti e corpo tipicamente a forma di pera, ricavati da un unico pezzo di legno e con corde di seta, tipicamente utilizzati dai monaci itineranti ciechi (biwa hoshi) intorno all’ottavo secolo per recitare brani di poemi epici. Questa categoria di strumenti si suddivide in ulteriori cinque sottotipologie: gaku biwa, moso biwa, heike biwa, satsuma biwa e chikuzen biwa.
– Shamisen: strumento a tre corde, della famiglia dei liuti, utilizzato per l’accompagnamento durante le rappresentazioni del teatro Kabuki e Bunraku. Di origine cinese, suonato con le dita o con un grosso plettro detto bachi, è caratterizzato da una cassa quadrata e ricoperta con pelle di serpente (il termine originario jabisen significa infatti strumento a corde in pelle di serpente). L’evoluzione di questo strumento portò alla creazione del futozao (a manico grosso), del chuzao (a manico medio), dello hosozao (a manico sottile) e successivamente i sottogruppi di strumenti afferenti agli hosozao e chuzao.
– Shakuhachi: flauto diritto a cinque fori, di origine cinese, realizzato in diverse dimensioni da quaranta a novanta centimetri, tipico del periodo Edo (1603-1867), strumento caratteristico di due scuole principali, la Kinko e la Tozan e con un repertorio specifico come lo honkyoku, pezzi sviluppati come forma di meditazione da parte dei monaci Zen, e il gaikyoku, brani inizialmente esterni al repertorio per shakuhachi.
– Shinobue: o takebue, è il flauto traverso, con un ruolo importante nella musica che accompagna le opere del teatro Noh e Kabuki.
– Koto: strumento a corda di origine cinese, appartenente alla famiglia delle cetre, dotato di una grande cassa armonica, lunga circa due metri e larga venticinque centimetri, con tredici corde di uguale diametro ed aventi stessa tensione, ognuna delle quali poggia su un ponticello mobile (ji), suonate con un plettro di diverse forme a seconda della scuola, e accordate muovendo opportunamente i suoi ponticelli. Esistono diversi tipi di accordature a seconda del genere musicale, del brano da eseguire o della scuola tradizionale, come Hirajoshi (una delle più comuni), Kokinjoshi, Gakujoshi o Honkumoijoshi.
Mettiamo insieme tutti questi strumenti, aggiungiamoci un pizzico di modernità con strumenti elettronici e influssi occidentali ed ecco nascere uno stile particolare, estremamente gradevole, anche in questo caso capace di riportare alla mente le sensazioni tipiche di mille pellicole. Kitaro è un grande compositore contemporaneo che ha saputo miscelare sapientemente generi e caratteristiche, strumenti e tecniche, creando un genere strumentale moderno, elettronico particolarmente gradito ai fan della musica new-age, ma non solo. Lasciamoci cullare iniziando a sognare scenari giapponesi con una delle sue composizioni.
Anche la musica, come svariate altre arti giapponesi, affonda le radici nelle religioni buddista e shintoista, prendendo spunto dalle origini cinesi per essere infine resa propria con il passare del tempo: alcuni strumenti tipici erano infatti utilizzati da caste specifiche per musicare specifiche narrazioni, a tema religioso o popolare, come pure eseguite da monaci mendicanti per chiedere l’elemosina, per arrivare infine all’accompagnamento più classico del teatro Noh o quello delle marionette, Bunraku, e quindi fino al Kabuki.
Ma la musica tradizionale, folkloristica, ha subito recentemente influssi da tutto il mondo, e lo spirito di copia, comprensione e studio approfodito, e quindi appropriazione e personalizzazione tipico della storia e della cultura giapponese, ha permesso la crescita di culture musicali non indifferenti e di contaminazioni particolari, forse anche solo a scopo meramente commerciale. Non ne sono immuni neanche i monaci buddisti, come Kossan, emigrato negli Stati Uniti per insegnare Zazen agli americani, suonatore di sanshin, lo strumento che si è successivamente evoluto nello shamisen, e che evidentemente è stato letteralemente folgorato da una musica più moderna.
La musica giapponese cominciò ad ammodernarsi solo all inizio del XIX secolo, occidentalizzandosi, prendendo spunto da mille generi e assumendo il nome di kayokyoku, la canzone popolare, ma solo dopo gli anni ’50 si sviluppò quello che resterà noto come pop giapponese, o j-pop, per arrivare al più moderno rock giapponese, j-rock, negli anni dai ’60 agli ’80, e ancora l’innovativo visual kei, un inedito concentrato di molteplici generi musicali, dai più dolci ai più feroci indistintamente, caratterizzato da un look estremamente vistoso e ricercato nei vestiti, nelle acconciature, nel trucco e nell’atteggiamento. È un genere estremamente fecondo nelle subculture giapponesi. E come non citare anche la specializzazione nelle musiche per videogiochi, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, realtà non secondaria data l’ormai alta qualità di queste composizioni che vengono anche vendute separatamente dal gioco per le quali sono state scritte. Non a caso una degli idoli del j-rock, Utada Hikaru, pianista, cantautrice e produttrice discografica, oltre ad aver venduto più di cinquanta milioni di dischi in tutto il mondo è stata anche compositrice di brani caratterizzanti alcuni videogiochi come quelli della saga Kingdom Hearts.
Il rock cominciò ad avere sempre più presa sulle nuove generazioni giapponesi, e mentre la società continuava la sua frenetica trasformazione, si vide ad esempio l’avvento prepotente del mito di una certa America, quella degli anni ’50, che diventò una nuova moda, un nuovo stile di vita, come già accaduto in altre nazioni occidentali. Inizialmente alcuni pionieri giapponesi della musica d’oltreoceano cominciarono ad interpretare brani rock and roll famosi, ancora una volta dando molto spazio all’universo musicale femminile, come la modella Hamamura Michiko, che colse l’opportunità di cavalcare quest’onda con incisioni del calibro di Jailhouse Rock.
Questa passione per il rock and roll sfocerà qualche anno più tardi nel movimento japanese rockabilly, diventando una vera e propria subcultura, incontrando con un certo successo anche la passione per il ballo, e alcuni gruppi fecero infine propri gli stilemi di musiche e tecniche più decisamente occidentali, ma senza abbandonare ami del tutto la tradizione che rimase elemento caratterizzante solo più nell’abbigliamento o nei testi che pescano a piene mani dai classici della letteratura giapponese. Il gruppo metal Ningen Isu ne è un tipico esempio, nel quale un’immagine decisamente giapponese si fonde con le sonorità caratteristiche del metal.
La storia della musica giapponese non è certo finita: come in un buon romanzo di fantascienza cyberpunk in cui il Giappone e la sua società possono essere presi a modello, con l’innovazione tecnologica tipica del Sol Levante e con un occhio sempre di riguardo alla tradizione, ecco comparire nuovi strumenti super tecnologici ma di ispirazione classica, come il Telesen, nel quale un piccolo televisore a tubo catodico si reincarna in qualcosa di simile allo sanshin. Ma mentre sanshin è una variante di sansen che letteralmente significa tre stringhe, Telesen ha più di tre stringhe, stringhe che sono metafore di strisce sullo schermo. Il suono viene prodotto quando il musicista cattura l’elettricità statica emessa dallo schermo CRT-TV da un plettro conduttivo e il tono può essere modificato variando il numero di strisce sullo schermo e la lunghezza d’onda utilizzando il controller sul manico dello strumento. Ne nasce un genere elettronico molto particolare, che potremmo vedere bel collocato in un’ambientazione alla Blade Runner.
Si torna quindi alle origini passando da questo futuro tecnologico in un ciclo continuo di trasformazioni artistiche che portano a riscoprire tradizioni e oggetti del passato, rinnovati e adattati per far fronte alla nuova creatività.
lele bo
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