di Chiara Bonacina – 2° dan Iaido
16 marzo 2017

 

Oggi mi sono regalata qualche momento in contemplazione di una bellissima opera di calligrafia di Bruno Riva,  無必然  Mu hitsuzen “Non ineluttabile”, ispirata all’autore da riflessioni sul concetto di  工夫  kufū “sforzarsi di superare un vicolo cieco” di Daisetsu Teitarō Suzuki.

A tutti capita più di una volta di imbattersi, quando si pratica un’arte marziale, in quegli odiosi momenti nei quali ci si sente perduti di fronte ad un movimento che si ha la sensazione di non riuscire a cambiare, un concetto che si crede di non riuscire ad afferrare, e se si pensa di averlo compreso, sono facili le lacrime di frustrazione per la sensazione di incapacità di trasmetterlo dalla sfera delle convinzioni a quella degli atti.

In occasione dell’ultimo allenamento della nazionale di iaidō, ma anche semplicemente ieri sera in dōjō, siamo tornati più volte sulla necessità di allontanarsi, ad un certo punto, dal kata “compitino” – eseguito enumerando le tecniche, per intenderci – e cercare di smettere di pensare, per rendere il contesto di esecuzione “reale”.

“Smettere di pensare” non è assolutamente un’impresa di poco conto. Non lo è perché siamo intrinsecamente obiettori di coscienza su tutto quello che non ci è familiare e non è più che assorbito, più che nostro; non lo è perché siamo “europei, troppo europei”, non lo è per mille ragioni, ma dobbiamo imparare a farlo.

È importante io credo, in questo senso, “fidarsi” del proprio insegnante, mettendo da parte i propri dubbi e le proprie aspirazioni di cambiamento orientate in direzioni scelte in autonomia.

In un certo momento della nostra pratica, potrebbe sembrarci infatti d’essere ad un passo dal cambiare qualcosa, oppure desiderare intensamente una modifica su un dettaglio preciso, che sia ad esempio l’apertura del nostro iaigoshi, la posizione delle nostre mani all’inizio o alla fine del taglio, l’altezza (o, più spesso, la piccolezza) del nostro caricamento.

Tuttavia, chi ha già vissuto il nostro percorso e ha studiato come risolvere determinati problemi prima di noi in genere parla a ragion veduta, e sarebbe importante farsi da parte, smettere di pensare e ciecamente eseguire, al meglio delle nostre possibilità. Pare un ragionamento elementare, ma metterlo in pratica è un altro paio di maniche.

Naturalmente capita di incontrare difficoltà fisiche, o percepire impressioni sbagliate. L’importante è non ancorarsi all’idea di essersi arenati contro scogli insuperabili, o peggio cercare giustificazioni dietro altre autorità – soprattutto la propria, che inconsciamente emerge ogni volta che diciamo, a noi stessi o al prossimo, “ma io lo sto facendo”. La morte di ogni crescita risiede nell’incapacità di abbandonarsi al cambiamento, e per cambiare bisogna mutare il proprio ego in forme leggere… La prima cosa da fare, quindi, piuttosto intuitivamente, è privarlo di ogni peso.

È la possibilità di mutare che risiede latente in ognuno di noi il seme che germoglia progressivamente, e che può condurre tutti noi al passaggio da traballanti spaccalegna armati di bokken a kodansha.

Ci vuole un atto di fede vero e proprio, perché infondo non è molto altro a rendere i marzialisti fondamentalmente diversi dagli atleti. Sto parlando di un atto di fede impegnativo, legato ad un codice di condotta che se abbracciato richiede precise norme di condotta, esteriori (come tanto piace ai giapponesi) ma soprattutto interiori. Qui casca l’asino, qui viene la parte difficile.

Anche il praticante più ribelle prima o poi impara a lasciare le scarpe fuori dal dōjō, ben allineate e con la punta verso l’esterno… Impara a indossare hakama e gi in modo da non sembrare reduce da un’aggressione, impara a non mettere la spada a terra oltraggiando shōmen con punta e taglio della lama. Con un po’ di buona volontà il nostro chiunque dall’animo ardente può apprendere anche il rispondere solo “hai!” ad ogni osservazione mossa dal sensei.

La vera difficoltà risiede nel cambiare ciò che accade dentro, ed è dura perché dall’esterno non si può ricevere più di tanto aiuto. Soluzioni facili non ce ne sono, ma c’è un concetto essenziale da inseguire: l’obbedienza. In genere noi europei già leggendo la parola andiamo incontro a disparate reazioni di rigetto… Tuttavia quando ci impegniamo in qualcosa che non nasce europeo, cercare di farlo diventare tale è un errore.

Siamo noi a dover cambiare per accogliere un’eredità che vogliamo fare realmente nostra. Il cambiamento qui consiste nel cercare di fidarsi di chi ha maggiore esperienza, privando di voce i nostri pensieri (soprattutto quelli negativi, ma anche i dubbi e le perplessità, che si estirpano più difficilmente e a maggior ragione quando non si è coscienti di nutrirne).

Far parte di un dōjō è una scelta per molti aspetti masochista, ma se l’abbiamo compiuta allora dobbiamo portarla avanti nel migliore dei modi possibili, per rispetto verso noi stessi, verso i senpai e i kohai, verso il sensei, ma soprattutto verso la tradizione che stiamo incarnando e di cui dovremmo onorare la storia, la cultura e il codice etico se non sempre, almeno ogni volta che abbandoniamo i jeans a favore dell’hakama.

 

 

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