La cosa essenziale nel parlare è quella di non parlare affatto. Quando pensi che puoi fare a meno di parlare, è meglio che tu stia zitto. Quando invece è necessario parlare, è bene dire poche parole con giudizio. Quando uno parla senza fare attenzione a quello che dice, finisce per essere disprezzato e abbandonato da tutti.

Yamamoto Tsunetomo, Hagakure XI,125 (trad. L. Soletta)

Scrivere sull’importanza del silenzio è probabilmente già in sé una forma di contraddizione. Del resto, può darsi che anche scrivere rientri nel campo delle situazioni in cui la parola si rende necessaria. Tsunetomo ci sorprende con un’affermazione non immediatamente comprensibile: La cosa essenziale nel parlare è quella di non parlare affatto. Forse saremmo portati a pensare che la cosa essenziale nel parlare sia in effetti, e banalmente, il parlare stesso. Ma non è così. Esattamente come non ci sarebbe musica se tutte le note fossero suonate insieme, così è necessario fare silenzio perché possa avvenire un dialogo, e sia dunque possibile la comunicazione. Le pause sono necessarie alla musica almeno quanto le note.

Scegliere di commentare un passo come questo espone necessariamente chi scrive ad un rischio. È facile cadere in moralismi e banalità quando si commenta un testo parenetico come questo. Il rischio di voler potenziare l’imperativo del testo, facendogli da eco in un commento, quasi a volergli dare ragione, finisce sempre per tradirne l’esegesi e per rendere poco credibile l’esortazione che esso propone.

Per questa ragione, non vi dirò che a volte è meglio tacere e misurare le parole. Lo sapete da voi.

Invece, ho l’impressione che questo passo crei una fruttuosa analogia tra la vita relazionale e quello che apprendiamo mediante la pratica dello iaidō. Si sa che uno degli obiettivi più importanti consiste nel vincere con la spada nel fodero. Questa affermazione non suona meno paradossale di quella di Tsunetomo sul rapporto tra parola e silenzio, ma vive della medesima necessità.

Esattamente come una spada non ancora estratta, anche il nostro silenzio può comunicare qualcosa.
Ci sono diverse ragioni per cui non si può estrarre una spada e altrettante per non pronunciare una sola parola. Alcune di queste motivazioni sono positive, altre negative. Certo, non si può vincere alcuno scontro soltanto per il fatto di non voler estrarre la spada. Nella maggior parte di quei casi, si verrebbe unicamente uccisi. La spada necessita di essere estratta, esattamente come la parola deve essere pronunciata.
Tuttavia, la spada, come la parola, richiede di non essere estratta né per rabbia né per paura, né tanto meno per gonfiare il proprio ego. Eppure, esattamente come un silenzio autorevole, o la pausa degli strumenti durante un concerto, la spada che non è ancora estratta, ma promette di esserlo, è capace di tenere alta la tensione di chi osserva, di chi ascolta.

Sarebbe un errore pensare di poter estrarre la nostra spada frettolosamente per dimostrare al nostro avversario di essere pronti a combattere. Più si avanza nello studio più ci si accorge come le fasi preliminari, con la spada ancora nel fodero, quando il silenzio carico di attese non è ancora interrotto la fischio possente del taglio, siano le più importanti.

La parola chiave, sia che si tratti di parlare, sia che si tratti di spada, è sempre l’attenzione. E quanto sia facile perdere questa attenzione, credo lo abbiamo sperimentato tutti quanti nelle nostre vite, come esseri umani prima ancora che come praticanti. Credo che prendersi un po’ di tempo per tornare a riflettere sulle implicazioni di questi silenzi qualitativamente alti, possa permetterci di ascoltare meglio anche la nostra pratica, le nostre parole.

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