Un uomo, la sua sconfitta

C’era una volta….

Diciamo la verità: le storie piacciono a tutti, non solo ai bambini, perché, rendendo possibile l’impossibile, ci liberano dalle afflizioni e dalle costrizioni della realtà. 

La nostra storia comincia con un duello e, come sempre accade nel mestiere delle armi, con una vittoria e una sconfitta. 

Ora, chi non ama il Jōdō si tranquillizzi, gli aspetti tecnici di questo duello tra Miyamoto Musashi e Musō Gonnosuke oggi non ci interessano. 

Siamo in una età di sangue e acciaio, il vincitore aveva ucciso un uomo per la prima volta a 13 anni. Ma, questa volta, per ragioni che non sapremo mai, Musashi risparmia il suo avversario, regalandogli una vita nel disonore forse peggiore della morte stessa, perché siamo nel Giappone del XVII secolo.

Proveniente da una famiglia di samurai con ambizioni di alto lignaggio, Gonnosuke, nel corso della sua formazione, aveva frequentato scuole di prestigio, quali il Kashima Shintō-Ryū e il Tenshin Shōden Katori Shintō Ryū.

In particolare, il livello di maestria raggiunto nell’utilizzo delle numerose armi insegnate presso quest’ultima scuola pare gli avesse fruttato il conferimento dell’ambita qualifica di menkyo, ossia la licenza di insegnamento senza restrizioni.

Terminato questo apprendistato, Gonnosuke aveva quindi intrapreso il tradizionale Musha shugyō, una sorta di viaggio iniziatico volto sia all’approfondimento che alla verifica sul campo delle conoscenze acquisite.

Ed è probabile che lo scontro sia avvenuto proprio in questa fase della vita di questo bushi che, per quanto non così celebre come il suo temibile avversario, aveva anche, oltre al suo proprio, un nome e un ruolo da difendere, cioè quello della scuola che, in qualche modo, egli rappresentava. 

E’ quindi evidente che, al di là del dramma personale, questa sconfitta minacciava di avere ricadute di non poco conto nel mondo marziale dell’epoca.

A volte capita, ed è questo il caso, che da un male scaturisca un bene assai più grande non solo per il diretto interessato ma anche per l’intera collettività: com’è noto, infatti, in seguito a questa sconfitta, Gonnosuke arrivò a concepire quell’opera d’arte che prende il nome JōJutsu, oggi più conosciuto nella sua derivazione moderna, il Jōdō.

Storie, dicevamo: e cosa possiamo immaginare di più affascinante, appunto, di questa fenice che rinasce, splendente al mondo, dalle ceneri di una morte negata?

Ma, molto spesso, per non dire sempre, il come finisce per contare più del cosa, almeno quando, arrivati ad un certo punto della vita, ci si comincia ad interrogare sul perché delle cose di questo mondo. 

Ora, mi sono chiesto tante volte cosa sia potuto passare per la mente di quest’uomo nel momento più buio della sua vita.

Sicuramente avrà pensato al suicidio, per trovare con un gesto estremo un riscatto socialmente accettato. 

Tuttavia, Gonnosuke non era un uomo qualunque e, immagino, fu proprio nel peso della responsabilità verso qualcosa di più grande di sé che egli trovò la forza per non consegnarsi a quell’estremo sacrificio che, per quanto nobilitante per chi lo compie, è pur sempre una resa, una dichiarazione solenne di impotenza, una sconfitta nella sconfitta.

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