Ai miei figli e agli studenti insegno il minimo, eppure mi aspetto che ce la facciano. Anche se io non sono serio, insisto perché loro siano coscienziosi; anche se io non sono corretto, voglio che loro lo siano. La ragione per cui i miei figli e studenti non fanno progressi è che io sono poco critico con me stesso.

Yamaga Soko (1622-1685), in T. Cleary (ed), Training the Samurai Mind: a Bushido Sourcebook, Shambala, Boston (MA) 2008. [ed. italiana: La mente del Samurai, Mondadori, Milano 2009, p. 59]

Leggere queste poche righe in uno scritto che l’editore moderno ha chiamato “autoesortazioni” mi ha colpito. Premettendo che oggi molti psicologi occidentali potrebbero avere ragione di criticare o per lo meno di attenuare le affermazioni di Yamaga Soko, ritengo che valga la pena soffermarsi un momento per comprendere perché ci colpiscono, e in che modo possono esserci utili.

L’antropologa americana Ruth Benedict(1) ci ha insegnato come il tema della colpa, in occidente, sia senza dubbio sentito come strutturante da un punto di vista sociologico e antropologico, ben più che nella società giapponese tradizionale, in cui sembra prevalere il senso della vergogna. Per cui anche il concetto stesso di “senso di colpa”, almeno così come lo concepiamo nella nostra vita di tutti i giorni, è una categoria culturalmente ambigua, e non necessariamente ambiti culturali e geografici tanto distanti condividono le medesime strutture di controllo sociale.

Ciò premesso, Yamaga Soko compone un lungo monologo interiore, in cui constata la propria inadeguatezza rispetto ai risultati che vorrebbe ottenere.

Leggendo il monologo, ho avuto l’impressione di essere giudicato, e questo magari non è piacevole, pur non avendo né figli né tanto meno allievi. Anche questo è un campanello di allarme: inconsciamente siamo portati a leggere la categoria di colpa come intrinsecamente legata a quella di giudizio, ovvero di condanna.

Interessante, ma dopo essermi immedesimato, forse neppure a buon diritto, con chi ha scritto quell’antico soliloquio, e aver compiuto tutta una serie di operazioni di sterilizzazione del testo, per non essere troppo offeso, cosa rimane?

A modesto parere di chi scrive, almeno due lezioni importanti: la prima, è che il campo dell’insegnamento, in qualunque contesto e in relazioni diverse, implica sempre una responsabilità. Ritenersi al di sopra degli errori dei propri discepoli solo perché si è certi di ricoprire una posizione di superiorità non può essere di aiuto né a noi stessi né tanto meno a chiunque voglia accostarsi a noi per imparare.

La seconda, forse ancor più importante della prima, è che l’insegnamento, in ogni sua forma, vive nel tempo, e dunque nel cambiamento. Nessun maestro che possa definirsi tale è sempre uguale a se stesso; si cambia, perché è necessario cambiare. È del tutto illusorio ritenere di possedere una sorta di tesoro di conoscenze acquisite una volta per tutte, statiche e sempre a nostra disposizione, cui si dovrebbero adeguare coloro che desiderano apprendere da noi. La realtà, e credo che questo sia lo spirito con cui Yamaga Soko ha scritto, è che si apprende sempre con qualcuno e mai semplicemente da qualcuno. Operare il cambiamento fruttuoso nel tempo richiede pratica, umiltà, e una giusta consapevolezza critica, in qualunque campo, ma senza dubbio questo è vero per le arti marziali. Uscendo dalle logiche di giudizio e colpa, si ottiene più semplicemente uno schema di causa ed effetto, a cui chiunque voglia crescere e far crescere è costretto ad attenersi.

(1) R. Benedict, The Chrysanthemum and the Sword: Patterns of Japanese Culture. Houghton Mifflin, Boston (MA) 1946.

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