L’idea comune che i tuoi movimenti dovrebbero essere rapidi come quelli di un uccello in volo non tiene conto della logica del combattimento. Agisci così quando sei dominato dall’avversario. L’ideale sarebbe che ti muovessi con calma e sicurezza, minacciando il tuo avversario, facendolo continuamente sgambettare. Questo è controllare l’altro senza esserne controllati. Invece di svolazzare di qui e di là come un uccello, è importante non perdere d’occhio i movimenti dell’altro. 

Izawa Nagahide (attivo ca 1711-1732), in T. Cleary (ed), Training the Samurai Mind: a Bushido Sourcebook, Shambala, Boston (MA) 2008. [ed. italiana: La mente del Samurai, Mondadori, Milano 2009, p. 131] 

Per chiunque pratichi iaido da almeno qualche anno, le parole di Izawa Nagahide non possono che suonare familiari. Anche se per tutti i praticanti può avere un grande valore – e senza dubbi ne ha per il sottoscritto – credo che questo pensiero abbia davvero molto da dire proprio a coloro che si accostano per la prima volta alla spada giapponese o intendono approcciarvisi. 

Quando si immagina un duello, si pensa che la velocità e la forza siano fondamentali nel determinare la vittoria di un combattente sul proprio avversario. Siamo abituati a pensare in questo modo semplicistico a causa di diverse rappresentazioni letterarie o cinematografiche che esaltano queste qualità associandole a super-individui in grado di compiere imprese straordinarie. Purtroppo o per fortuna, le cose non stanno così. 

Nei primi jigeiko di kendo che affrontai ero del tutto convinto di questo assunto, e mi illusi che bastasse fare un grande sforzo muscolare per segnare un ippon al mio avversario. Mi credevo veloce quando ovviamente non lo ero, e anzi non lo sono: il risultato era sempre essere sorpreso dalla tranquillità del senpai, il quale approfittava delle mie rigidità per colpirmi sul men o sul kote. Questa è di per sé un’esperienza assai istruttiva. 

Nello iaido, il fatto di non essere colpiti da nessuno rende le cose più difficili. Certo, qualcuno potrebbe obiettarmi che è più difficile farsi sorprendere a sgambettare dal proprio kasoteki, e che la struttura fissa del kata di per sé tende a minimizzare questo rischio. Se in parte questo è senza dubbio vero, credo però che alla base di molti errori nella pratica dei kata sia da ricondurre alla medesima convinzione, più o meno consapevole, di aver bisogno di forza e velocità per vincere il proprio avversario. 

Non occorre che sia io a ricordare quante volte inseriamo atti del tutto illogici nella nostra esecuzione, che senza dubbio determinerebbero la nostra morte davanti ad un avversario fisico, solo a causa della assurda volontà di combattere “come un uccello in volo”. 

Il combattimento non può essere frenetico, esattamente come non lo può essere la nostra mente durante un compito importante. È come quando si studia per prendere la patente e si trova scritto sul manuale di non mettersi alla guida in stati emotivi alterati o sotto l’effetto di alcool o droghe. Credo che lo stesso si possa dire per un combattimento di spada: è l’insicurezza a volerci far mostrare troppo, e ubriachi di insicurezza, che è una delle forme della paura, non si può sconfiggere nessun avversario. 

Detta così sembra facile, ma voglio sottolineare che non lo è affatto, sia ben chiaro. Il punto è che l’antichità di questi detti corrobora il senso delle infinite volte in cui anche oggi il praticante è richiamato a dosare la lentezza e la velocità nel suo kata, per conferire un ritmo sensato; è tenuto a guardare prima di effettuare un movimento, e soprattutto a manifestare attenzione, presenza e controllo nella sua esecuzione. Almeno da trecento anni, queste cose vengono ripetute: anche questo, penso, può esserci di incoraggiamento.

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