L’idea di una mente compassionevole all’interno dello Iaido mi è stata proposta un po’ di anni fa da qualche Maestro (anche se onestamente non ricordo quale) come un necessario passaggio per crescere nella pratica e adottare quindi un cambio di mentalità e atteggiamento nei confronti del nostro avversario, sia esso interiore o una proiezione di qualcun altro.

Era un concetto molto interessante, che mi aveva intrigato fin da subito e che ho ritrovato, un po’ per caso, all’interno della mia continua formazione in psicoterapia, quando ho iniziato a studiare un approccio chiamato Compassion Focused Therapy, introdotto da Paul Gilbert, stimato e noto clinico inglese.

La Terapia Focalizzata sulla Compassione (TFC) si inserisce all’interno della cornice della psicologia evoluzionistica, in cui il funzionamento del cervello trova solidi riscontri nelle neuroscienze e nella biologia e fornisce significative spiegazioni rispetto alla mente e al comportamento umano (sistemi arcaici di difesa, sistemi motivazionali interpersonali, capacità di dare senso e significato alla nostra esperienza); come spesso accade, è forte il richiamo alla tradizione buddista, da cui prende chiaramente e espressamente spunto.

Partiamo dal principio, cosa si intende per compassione? In linea generale, è una particolare sensibilità alla sofferenza di se stessi e degli altri, unita ad un forte desiderio e impegno ad alleviarla; non si deve confondere col “provare pena” per qualcuno, ma deve esser intesa piuttosto come una motivazione (inscritta nelle parte più evoluta del nostro cervello) a prendersi cura di e che possa portare beneficio e benessere. L’approccio della TFC è particolarmente adatto per persone con forti sensi di colpa, tendenza all’autocritica ed incapacità a trovare uno stato di sicurezza all’interno della propria vita.

Andrea Cauda Iaido
Andrea Cauda. Fotografia di Giorgos Sardelis

Ma come tutto ciò è legato allo Iaido?

Credo si possano introdurre due discorsi differenti rispetto a questa tematica, di cui il primo si riferisce a quanto suggeritomi in passato da diversi Maestri, come accennavo in precedenza.

Quando si inizia a praticare, solitamente siamo abituati a “vedere” il nostro avversario immaginario come un nemico, ci insegnano a considerarlo come una parte di noi stessi che vogliamo in qualche modo sconfiggere. Effettivamente ciò aiuta molto all’inizio, poiché permette di tirare fuori tutta una serie di motivazioni ed emozioni che, se si riesce, possono anche aiutarci a mostrare semé e zanshin, focalizzando l’attenzione, una volta imparata la sequenza dei Kata, sul nostro avversario.

Da un certo punto in avanti però, forse da 4 o 5 dan in su, mi trovo d’accordo su quanto mi è stato detto anni fa: è forse necessario iniziare a cambiare prospettiva e attitudine verso il nostro nemico. Ed è qui che entra in gioco il concetto di cui stiamo parlando, ossia provare compassione per chi abbiamo davanti. É lampante che all’interno dello Iaido saranno sempre presenti “tecniche” usate per difendersi e contrattacare, cercando di sopravvivere al duello insito nel kata. Ma avanzando di grado, ed è quello che sto cercando di fare per raggiungere il 6 dan, alcuni Maestri suggeriscono di adottare un atteggiamento più compassionevole appunto, che permetta di guardare il nostro avversario con occhi diversi, non con odio, rabbia o tensione (tutte emozioni di difesa che emergono quando entriamo in un stato di minaccia percepita) ma, mi vien da dire, con un “calore” che abbracci l’intera situazione del kata e il qui ed ora del nostro corpo, in perfetto equilibrio e in armonia col nemico immaginario, mantenendo sensazioni di sicurezza, di tranquillità, di coraggio e di saggezza (tutte caratteristiche della compassione).

É un concetto molto complesso che sicuramente necessita di una guida esperta, che possa aiutare a non perdersi in strade tortuose.

Andrea Cauda Iaido
Andrea Cauda. Fotografia di Giorgos Sardelis

Per quando riguarda il secondo punto, parto da una riflessione puramente personale: provare compassione per se stessi. Troppo spesso nella pratica, si notano Iaidoka molto critici con se stessi ed emozioni come la frustrazione, rabbia e disappunto si manifestano con frequenza. Credo che una crescita progressiva e senza fine, come quella di un’arte marziale, debba passare anche da questo cambio di mentalità: è corretto non adagiarsi e volersi sempre migliorare, provando a superare i propri limiti e seguendo gli insegnamenti dei nostri Maestri, ma dovremmo riuscire a mantenere un atteggiamento di curiosità e sincera serenità con noi stessi, evitando di rimuginare su pensieri e sensazioni negativi, che bloccano sicuramente la nostra crescita.

Il sapersi prender cura di sé, quantomeno nella nostra disciplina, perdonandosi possibili errori, mancanze ed incapacità a cambiare con i tempi e i modi previsti, risulta esser molto importante. Se continuiamo ad arrabbiarci con noi stessi, o con gli altri, rimarremo fossilizzati su tali emozioni senza provare ad utilizzare strategie differenti e più funzionali al cambiamento. 

Tutto ciò comprende anche la consapevolezza di quelli che sono i nostri limiti e le nostre possibilità: accettare quanto riusciamo a fare, non farci aspettative troppo fuori portata, ma pensare unicamente alla pratica, al dare il massimo ogni volta che siamo nel dojo, aiuta certamente a star meglio con se stessi e a non esser troppo autocritici. D’altronde stiamo facendo qualcosa che per un motivo o per l’altro ci fa stare bene e ci piace, quindi perché prendersela tanto? Ripartiamo dalle basi, rallentiamo tutti i movimenti (ma per davvero!) e proviamo a sintonizzarci con il nostro corpo, magari chiudendo gli occhi ed immaginandosi come stiamo realmente facendo… forse in questo modo riusciremo a percepire l’intero quadro un po’ meglio.

É necessario porsi piccoli obiettivi, la Via è lunga, quindi dovremmo immaginarla come una scala in cui lentamente (perchè il nostro corpo non sa fare altrimenti) progrediamo e in cui, forse, ad un certo punto ci fermeremo perché avremo raggiunto il massimo per noi stessi.

Andrea Cauda

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