Statisticamente, per ogni 1.000 persone che entrano nelle palestre di arti marziali, la metà si arrende nei primi 6 mesi di pratica.
Degli altri 200 completeranno 1 anno di lezione prima di mollare.
50 arriveranno al secondo anno, ma solo 10 completeranno il terzo anniversario di pratica.
Meno di 6 otterranno la fascia nera 1° Dan e meno di 3° Dan.
Di quelli che restano nel DO, solo 1 (UNO) insegnerà in futuro ad altri, sapendo che anche chi si arrende, porterà con sé un buon contenuto che farà parte della loro vita finché vivrà.
Continuerà a condividere gli insegnamenti non preoccupandosi di quelli che si arrendono, ma prendersi cura di quelli che restano.
Questa persona è un SENSEI: 1 su 1.000.  

M. Ueshiba
di Danielle Borra e Carlo Sappino

Moltissimi sono i motivi per cui si inizia la pratica dello Iaido, pochi quelli per lasciarlo, tanto che di massima, si possono contare sulle dita di una mano!

Come dice chiaramente Ueshiba Sensei sono pochi quelli che arrivano fino ai gradi più alti e sono ancora meno quelli che percorrono la via per tutta la loro vita in particolare in occidente.

Non stupisce che molti abbandonino nei primi anni di pratica: “ho provato una cosa e in fondo non mi piace abbastanza o non mi convince del tutto così passo ad altro” pur non avendo ancora praticato per molto tempo e non avendo veramente approfondito il concetto di Budo inteso come una Via per lo sviluppo dell’essere umano che non ha mai fine.

Più difficile è capire gli abbandoni man mano che gli anni di pratica passano.

Per un insegnante è un tema difficile. Ogni volta che smette una persona di grado più elevato i pensieri sono molti: che cosa ho sbagliato? Cosa non sono riuscito a trasmettere. La verità è che a volte non dipende neppure da qualche cosa di fatto o non fatto ma chiaramente l’insegnante non può che vedere con dispiacere una persona smettere. Razionalmente è chiaro che non è stato sprecato del  tempo e che quella persona porterà con sé un pezzo di quanto è stato insegnato, è inevitabile, la pratica determina comunque un cambiamento per piccolo che sia. Rimane comunque una cosa difficile per l’insegnante e a volte anche un filo deprimente.

Perchè le persone abbandonano? Pensandoci un po’ le cause possono essere riassunte in questo elenco non gerarchico:

  1. Problemi di studio / lavoro / famiglia, cambiamenti nella propria vita.

 Soprattutto lo studio, ma anche il lavoro, nelle realtà della provincia, sono spesso causa d’abbandono “per trasferimento” in località dove la pratica non è più possibile vuoi per assenza di dojo, vuoi per difficoltà logistiche, ma anche, non neghiamolo, per difficoltà d’ingresso ed ambientamento in dojo dove insegnamento ed abitudini contrastano col “sentire” la disciplina da parte del soggetto o con le consuetudini acquisite. E’ difficile perché anche se lo Iaido della ZNKR è universale a volte gli insegnamenti o l’approccio non lo sono e questo può creare difficoltà. E’ necessario un certo grado di maturità da parte della persona per affrontare i differenti approcci e rendere questa diversità un plus valore.

  1. Difficoltà nel superare esami o di ottenere risultati gratificanti nelle gare. 

Questo può essere l’aspetto più mortificante quando visto dal lato dell’insegnante, perché forse la carenza è da individuare non tanto nella mancata trasmissione di tecniche, quanto nel non essere riusciti a trasmettere all’allievo il reale spirito del Budo, più che la capacità di gestire il proprio ego evidentemente mortificato dal mancato risultato.

  1. Mancanza di motivazioni

Dopo un po’ di tempo la pratica si fa ripetitiva e la noia a volte prende un po’ il sopravvento. In fondo si tratta di ripetere all’infinto gli stessi gesti cercando sempre di renderli migliori: un lavoro da monaci zen in pratica. La bellezza della ricerca impossibile della perfezione non è per tutti, diciamoci la verità. Questa è sicuramente una delle cause principali di abbandono sia nell’immediato che avanti nella pratica. Nel suo libro Rigolio suggerisce alcuni accorgimenti per i praticanti più avanzati rispetto a questo punto: cambiare i ruoli o creare nuovi compiti che possano stimolare il praticante; fare aprire corsi e far insegnare in modo da vedere un lato diverso della pratica, ritrovare entusiasmo nel cercare di trasmettere ad altri quanto si sa ed inevitabilmente approfondendo di conseguenza la propria pratica; incoraggiare nuove esperienze per esempio l’arbitraggio in modo da creare un approccio diverso e aiutare a focalizzarsi sulla necessità di crescere ma in modo diverso. Sono tutti sistemi che, se studiati sulle caratteristiche del praticante, possono aiutare a superare il momento di difficoltà. Le motivazioni però sono molto personali e non è detto che questo approccio aiuti.

  1. Difficoltà di relazione con insegnanti / gruppo. 

Si pratica per molto tempo insieme ed è inevitabile che si creino dinamiche di gruppo che cambiano ed evolvono nel tempo. A fronte di un frequente crearsi e consolidarsi di amicizie, a volte nascono contrasti con gli altri membri del gruppo o con gli insegnanti. 

Su quest’ultimo punto non possiamo nasconderci che ci sono insegnanti, magari ottimi praticanti, a cui manca quella cultura dell’essere insegnante, quella capacità empatica o quella capacità di riuscire a calibrare la propria azione con le reali capacità e aspettative dell’allievo. Aspetti fondamentali per la creazione di un rapporto docente/discente armonioso e di conseguenza costruttivo ed appagante per entrambi.

In fondo il dojo è un microcosmo in cui si manifestano tutte le dinamiche che abbiamo nel resto della nostra vita fuori dal dojo. Il dojo è una palestra a tutti gli effetti, ci permette di allenarci e di cercare di superare quelle dinamiche che ritroviamo anche al di fuori ma in un ambiente tutto sommato protetto, in cui non ci sono grandi interessi di carattere economico o interessi familiari. Se non riusciamo ad essere in armonia nel dojo e se non riusciamo a mediare i contrasti in quello spazio come possiamo pensare di riuscirci fuori dove, in genere, gli interessi sono molto più spinti? Nonostante questo spesso si smette per una serie di contrasti che invece di cercare di risolvere si tende ad esacerbare.

  1. Difficoltà nella continuità della pratica, non capire la necessità di approfondire e quindi non aver capito il reale significato del termine Budo.

Il Maestro Ishido spesso dice che lo Iaido è per la vita, che non tutti possono arrivare ad essere 7° o 8° Dan per tanti motivi, età, problemi fisici … ma che tutti possono continuare a praticare e ad approfondire la pratica dello Iaido divertendosi e continuando a vincere contro il sé di ieri. Non è un concetto facile da capire e spesso è più semplice lasciare stare perché ci scontriamo con qualche difficoltà o perché ci raccontiamo delle storie. Nuovamente se non sappiamo affrontare i problemi in palestra come li affronteremo nella vita?

L’istruttore a volte può fare qualche cosa e riesce ad intervenire, come abbiamo già descritto nell’articolo I quattro stadi dell’apprendimento e le difficoltà della progressione, ma spesso può solo limitarsi ad essere uno spettatore della dinamica in corso poiché ogni suo intervento risulta inefficace.

L’unico rimedio è cercare di fare le cose nel miglior modo possibile aumentando la consapevolezza dei praticanti rispetto al significato insito nel percorrere una Via.

E, applicando un concetto zen, non avere aspettative, anche se le aspettative e la delusione fanno parte del naturale percorso dell’insegnante.

Danielle Borra e Carlo Sappino

L’inchino dell’allenatore giapponese Hajime Moriyasu dopo la sconfitta ai mondiali di calcio 2022. @ tag24
di Claudio Zanoni

Mi aggiungo a questa riflessione di Danielle e Carlo con una breve riflessione. Ho ripetutamente scritto, e ne sono convintissimo, che in qualche modo noi occidentali cerchiamo di scimmiottare un mondo che non ci appartiene, che non è nostro e forse nemmeno esiste se non nella letteratura romanzata.

Noi non siamo Giapponesi, anche se studiamo la lingua e se ne seguiamo i dettami, non abbiamo il background culturale di 2000 anni di storia, di abitudini, di modo di vivere. Forse non lo hanno nemmeno più la maggior parte dei Giapponesi stessi.

La seconda considerazione è che quello che sogniamo probabilmente non è mai esistito, ma è il frutto di fantasie letterarie o di fraintendimenti di storici  di autori che hanno visto delle cose in Giappone e le hanno fraintese interpretandole dal punto di vista storico culturale occidentale.

Un esempio più che lampante sono i ronin che hanno per noi un che di magico e puro, ma che in realtà altro non erano che alla stregua dei nostri briganti, se non peggio, in quanto la vita delle classi inferiori in Giappone non aveva valore.

Perché dico tutto questo, perché credo che pensare di avvicinarsi a questi ideali sia completamente sbagliato e porti, nel tempo, all’interruzione della pratica. Ad un certo punto ci si rende conto che non si diventerà mai il fiero e puro guerriero senza paura e senza macchia, ma semplicemente dei meri praticanti.

Credo che una volta appurato questo e resisi conto che la pratica è fatta per noi stessi, per essere migliori con noi stessi e con il nostro io e soprattutto, come dice Banti, “Enjoy”, forse non si abbandona. Molti invece quando si rendono conto di questo perdono ogni spinta e mollano miseramente. Credo che oltre a tutto quello che hanno menzionato Danielle e Carlo, ci sia anche lo svegliarsi da un sogno fanciullesco di eroi in armature cavalli bianchi e battaglie da vincere.

In realtà una battaglia da vincere c’è ed è quella con noi stessi, ma è più facile svoltare su un’altra via e ancora e ancora e ancora in un eterno inseguimento senza risultato.

Claudio Zanoni

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